Papà mio diceva sempre che non so mettermi l'eye liner e che, quando una cosa non la si sa, è meglio lasciar perdere. Aveva ragione, ma a me piacciono i capelli cotonati, gli abiti a trapezio e l'optical e senza eye liner che gusto c'è a vestirsi anni sessanta?

Sarò anche un investigatore privato, ma questo non mi obbliga mica a conciarmi come una barbona. Per dire, papà mio non è mai andato a lavorare senza cravatta.

È lui che mi ha lasciato la Lucchini Investiga e la prima cosa che ho fatto dopo aver smesso di piangere è stato cambiare il nome sulla porta in Emma's Eye, molto più elegante e prendermi una segretaria, Catia, molto meno elegante. Forse perché prima faceva il vigile urbano e le è rimasta quest'aria un po' così.

Non so come mai è venuta a lavorare da me, per farmi guadagnare i soldi necessari a pagare le multe che mi ha dato in questi anni, credo.

Tutti abbiamo un sogno, il mio sarebbe che, quando mi siedo alla scrivania, arriva Catia con il caffè e per arrivare arriva, ma, invece del caffè, porta cattive notizie. Anche la mattina che iniziò tutta la storia.

– C'è da pagare la luce o la tagliano e il telefono o lo tagliano e la tipografia ha detto che, se gli racconti ancora balle, vengono qui e buonanotte.

– Ho risolto due casi l'altro ieri, qualcuno pagherà.

Catia mi liquidò con il suo sorriso da vigile sprezzante.

– Certo, ma quanto vuoi chiedere per un gatto recuperato o per il terribile mistero delle lenzuola infangate?

Papà mio sì, che era un grande investigatore. Solo gli imbecilli dicono che l'unica volta che si è trovato per le mani qualcosa di serio si è fatto ammazzare. È vero, gli hanno sparato, ma perché aveva fiutato la pista giusta.

Cosa volete succeda in una cittadina di provincia? A parte gatti scomparsi e casalinghe sul piede di guerra qui si vive tranquilli, anche troppo. Certe volte penso che dovrei andarmene in America, dare la caccia ai pericoli pubblici numero uno e fare un sacco di soldi. Morirei di paura, ma almeno mi libererei di Catia.

– Ammettiamo che con quei quattro soldi riusciamo a pagare la luce e il resto? – mi sventolò sotto il naso un pacco di fatture – Siamo indietro con l'affitto, con le rate dei mobili e non voglio neanche nominare il mio stipendio, siamo messe da far paura. Cosa pensi di fare?

– Capita sempre qualcosa quando si sta per toccare il fondo. È la mia filosofia.

– Toccare il fondo? Per quanto mi riguarda il fondo non lo stiamo toccando, lo stiamo raschiando.

– Catia, quando ti scaldi in questo modo è perché vuoi chiedermi qualcosa. Fallo e finiscila.

– Ti ho trovato un lavoro.

C'era di che spaventarsi.

– Non per rivangare un incubo del passato, ma l'ultima volta che mi hai detto una cosa del genere mi sono trovata a fare da baby sitter ad un mostro di due anni che ha macchiato di banana la mia gonna fucsia.

Catia mi guardò come se avessi bestemmiato.

– Come puoi parlare così del figlio della mia amica Patrizia? – mi chiese con voce rotta – È un bambino delizioso e l'ex marito glielo voleva rapire.

– Come no, tanto ex che adesso sono di nuovo insieme e hanno fatto due gemelli pestiferi peggio del primo. E ti ricordi della tua amica Valentina, quella che credeva di avere un fantasma in casa ed era la tubatura dell'acqua? O di Corinna che pensava di aver trovato un microfilm della CIA dentro a un libro di cucina? Fattene una ragione, le tue amiche sono una più suonata dell'altra.

A questo punto Catia usò contro di me la sua arma più infallibile: l'espressione ferita.

– Va bene – sospirai, – sotto a chi tocca.

– Si tratta della mia amica Eleonora. Oh, è una posto, credimi – si affrettò ad aggiungere, vedendo la mia espressione – domani sera si fidanza e durante il ricevimento suo padre le regalerà una collana che vale un sacco di soldi. Qui entri in ballo tu.

– Che devo fare? Portare lo strascico alla sposa?

Catia sbuffò.

– È per la vigilanza. Non vogliono attorno un bodyguard dall'aria truce e io ho detto che tu saresti perfetta per tenere sotto controllo la situazione.

– Quanto pagano?

Me lo disse ed era tanto, quasi troppo per stare lì a mangiar tartine. Andiamo, cosa può succedere a una festa di fidanzamento.

– E poi ti potresti comprare qualcosa di carino, tanto per non sfigurare. Non so, una cosetta da sera, un paio di sandali...

Che vi devo dire, all'improvviso mi venne una gran voglia di accettare l'incarico.

Catia sarà noiosa come un vigile, ma sa sempre come prendermi.

Papà mio diceva che, prima di mettersi a lavorare a un caso, bisogna conoscere del cliente e di chi gli gira intorno anche il tipo di mutande che porta.

Per questo avevo passato un giorno e mezzo ad ascoltare pettegolezzi e ormai sapevo tutto o quasi di tre quarti degli invitati al fidanzamento. Bella festa, non c'è che dire, gente ricca, ottimo champagne e stuzzichini. I presto sposi, poi, facevano una gran figura.

Eleonora, biondina e chic, mi si avvicinò sorridendo.

– Ti diverti?

– Non dovrei dirlo visto che sono qui per lavoro, ma sì, mi sto divertendo. – osservai che al collo portava una catenella sottile con una goccia di smeraldo – È quella la famosa collana?

– Oh, no. Arriverà con la torta e tutto il resto. La vedrai, è un orrore in opali assolutamente importabile, non saprò mai con cosa metterla.

– La vita è piena di problemi.

– Come?

– Niente, – mi sarei mangiata la lingua, – ogni tanto dico delle stupidaggini.

– Santo cielo, Paolo è stato sequestrato dalla bisnonna – e mi indicò una vecchietta vestita di viola che trascinava per un braccio il povero giovanotto. – Scusami, devo salvarlo.

Paolo, lo sposo, il pomo della discordia fra Eleonora e il paparino, perché era senz'altro bellissimo e senza dubbio povero. Cioè, povero, diciamo che un impiegato delle Poste non è proprio il marito che un miliardario sogna per il suo cucciolo d'oro.

Comunque mi avevano raccontato che Eleonora, di solito buona, brava e ubbidiente, questa volta si era impuntata e l'aveva avuta vinta.

A mezzanotte mi facevano male i piedi e proprio mentre sognavo le mie ciabatte di peluche, notai una certa agitazione fra i padroni di casa. Mi avvicinai a Eleonora.

– Papà va a prendere la collana.

– Bene, – dissi posando il bicchiere – lo accompagno.

– No, per carità, è gelosissimo della sua cassaforte. Nessuno conosce la combinazione e non lascia nemmeno che qualcuno entri nella stanza insieme a lui.

Seguii con lo sguardo l'uomo che si dirigeva verso la scala che portava ai piani superiori. Ero perplessa. Mi pagavano perché controllassi un gioiello o per avere un'invitata in più? Spallucciai e bevvi un altro sorso di champagne, in fondo l'avevo detto anch'io: a parte una fuga improvvisa dello sposo, cosa può succedere ad una festa di fidanzamento?

Fu allora che sentimmo urlare.

Chi viene ammazzato grida di rabbia e di stupore. Perché non se lo aspetta, perché non ci crede che finisce tutto lì, perché ricorda le cose che deve ancora fare e invece ha chiuso.

C'era qualcuno che gridava così, in cima alle scale.

Non potevo correre con i tacchi a spillo, allora mi tolsi le scarpe e mi precipitai di sopra.

Non c'erano luci accese nel corridoio e anche le stanze erano al buio, solo da una porta semichiusa filtrava un po' di luce. Udii vagamente qualcuno nel salone che diceva di chiamare la polizia, poi Eleonora che chiedeva gridando dov'era suo padre, a me era scesa addosso una strana calma.

Niente imprudenze, coccola, avrebbe detto papà mio, annusa l'aria e procedi.

L'aria mi diceva che chi aveva fatto quel che aveva fatto se n'era andato e io potevo, con prudenza, tirare un bel respiro, aprire quella porta accostata e guardare dentro.

Quello che vidi sembrava uscito da un vecchio film di Marlowe, solo che io non ero Humphrey Bogart e l'uomo a terra con la testa spaccata non stava recitando. Era morto sul serio.

Una mano piccola e sudata mi afferrò il braccio.

– Dio mio, papà...

Tentai di farla uscire.

– Non restare qui, è meglio che tu non lo veda adesso. Dov'è Paolo? – chiesi cercandolo in mezzo alla gente che si ammassava in corridoio. Pensavo che la cosa migliore fosse affidarla a lui.

– Non so. Dieci minuti fa mi ha detto che saliva un attimo.

Cominciò a guardarsi attorno sempre più affannata, poi lasciò il mio braccio e si precipitò fuori dalla stanza.

Bel pasticcio, pensai.

Bel casino, avrebbe detto papà mio.

– E poi? Cosa è successo, poi?

La guardai disgustata. Non avrei mai creduto che Catia fosse tanto morbosa.

Erano le quattro del mattino e me ne stavo sul divano di casa mia a massaggiarmi i piedi, l'avevo chiamata perché immaginavo si preoccupasse per la sua amica e invece lei sembrava molto più interessata ai particolari macabri.

– Niente, cosa vuoi sia successo. Il morto era lì, la collana invece no e Paolo nemmeno. Tu cosa avresti concluso?

– Ha aspettato che il padre di Eleonora aprisse la cassaforte, lo ha ammazzato ed è scappato con la refurtiva.

– Ecco, è quello che ho pensato anch'io – sbadigliai – e anche la polizia. Eleonora invece no.

– È innamorata e al suo posto mi comporterei nella stessa maniera.

– Sì, forse anch'io, ma lei ha inventato una storia incredibile ed è stato penoso vederla cercare Paolo per tutta la casa. Sentirla raccontare che sicuramente non era colpa sua e che lo avevano obbligato è stato ancora peggio.

– Obbligato? Chi?

– Chiedilo a lei. Ha cominciato a farneticare di ricatti e nessuno ha avuto il coraggio di ribattere. – sbadigliai di nuovo – Comunque non è un problema mio. Questa storia non mi riguarda più.

Non era così e me ne accorsi anche troppo presto la mattina dopo quando, ritta davanti alla mia scrivania, trovai Eleonora ad aspettarmi e a fissare un punto imprecisato sul muro.

– Potevi farla sedere e mettere su un caffè – sussurrai a Catia. – Non vedi che sta in piedi per scommessa?

– Credi non gliel'abbia detto? Voleva aspettarti – sembrava un vigile sul punto di piangere.

– Ora sono qui. Preparalo anche per me – mi girai verso Eleonora, – dai, siediti.

Il caffè si rivelò pessimo, ma le fece tornare un po' di colore sul viso.

– Devi aiutarmi.

Non sembrava nemmeno la sua voce.

– Devi aiutarmi.

– Tocca alla polizia, adesso. Io non posso fare niente.

– La polizia non mi crede – parlava tenendo la borsetta costosa stretta in grembo e la guardava come se dovesse leggerci il destino.

– Ci vogliono prove – mi stavo arrampicando sugli specchi e lo sapevo.

– Le ho – con un colpo secco, spalancò la borsa e ne rovesciò il contenuto sul tavolo. – Questa roba l'ho trovata a casa sua, stamattina.

In un primo momento non riuscii a distinguere niente in quel mucchio di oggettini pacchiani, poi vidi che erano scatole di fiammiferi, agendine, qualche profilattico cellofanato in colori vivaci. In parole povere, gadgets da night club.

– Be', Eleonora, frequentava certi posti. Non è un reato e anche se posso capire che tu ti senta offesa, non è né il primo né l'unico che lo fa.

– Non hai capito niente, invece – mi zittì seccata, – proprio niente. Lo sapevo che gli piacevano i locali notturni e tutto il resto, ma da quando stava con me non ci andava più, me lo aveva promesso.

– E tu gli hai creduto.

– Certo – mi guardò come se fossi una mentecatta, – ci dovevamo sposare, lo amavo, mi amava, perché non avrei dovuto credergli?

Sospirai. E sospirò anche Catia, appoggiata allo stipite della porta.

– Potrebbe essere roba vecchia, magari si è tenuto qualche ricordino.

– No. Gli avevo chiesto di liberarsene e lui lo aveva fatto.

– Insomma, dimmi chiaro che cosa pensi – mi stavo seccando davanti a quella faccetta testarda.

– Lo ricattavano. Magari ha ripreso ad andare in quei posti lì perché lo hanno incastrato con delle foto compromettenti, si fa così, no? Magari  hanno minacciato di mostrarle a me o a papà – era lei che si arrampicava sugli specchi, ora. E lo sapeva. – O aveva dei debiti di gioco, ecco. Mi voleva proteggere, Paolo non avrebbe fatto niente di così orribile se non fosse stato per proteggere me.

Piangeva adesso e fissava me e Catia e quel cumulo inutile di cianfrusaglie ammucchiate sul mio tavolo.

– Va bene. Cosa vuoi che faccia?

Non riuscivo a sopportare di vederla soffrire tanto, potevo almeno tentare.

– Questa notte voglio che tu venga con me a fare il giro dei locali.

– Sei matta.

– Ci vado da sola se non vieni.

Ancora quella faccia ostinata.

– Va bene. Ma cosa speri di trovare?

– La verità.

Papà mio diceva sempre una cosa e io la ripetei a lei.

– Qualche volta la verità è proprio quella che abbiamo sotto al naso.

Non mi rispose e uscì.

– Hai bisogno di una pistola.

– Non la voglio una pistola – Catia doveva essere uscita di testa. – Le pistole procurano guai e cosa può succedermi in giro per night.

– Questo lo hai già detto l'altro ieri. Cosa può succedere a una festa di fidanzamento? E poi hai visto. Prova a leggere i nomi di quei posti. In almeno metà non dovresti entrarci nemmeno con la scorta. È una situazione pericolosa e io ho pratica di queste cose.

– Pratica? Ma se la cosa più pericolosa che hai fatto in vita tua è stato fare la multa al sindaco!

Catia mi regalò la sua solita occhiata da vigile sprezzante e mi trascinò fuori.

 

Il poligono di tiro era pieno di sbirri, qualcuno parecchio belloccio, devo dire, che si esibirono in una serie di commenti da macho sulla mia minigonna. Quando cominciai a sparare la piantarono subito.

Catia mi guardava con gli occhi sfavillanti di una madre che scopre in suo figlio un genio. Forse avrei dovuto spiegarle che, a diciotto anni, papà mio mi aveva messo in mano una pistola e mi aveva insegnato tutto quello che c'era da sapere. Ma perché darle una delusione? Era così contenta.

Ce ne tornammo a casa dopo aver tirato giù un paio di sagome e tirato su un paio di appuntamenti e qui si profilò il secondo problema: dove avrei nascosto quella maledetta pistola?

– La metto in borsa.

– Come no. E mentre la cerchi fra il cellulare, le caramelle e il fazzoletto, sei morta.

– Nel reggicalze?

– Tu non hai un reggicalze.

– Potrei comprarlo. – ho sempre sognato un reggicalze, ma forse era una soluzione troppo da mata hari.

Alla fine sacrificai un vestito. Scucito l'interno della tasca destra, quando ci infilavo la mano andavo a finire direttamente sul calcio della pistola che Catia mi aveva assicurato alla coscia con un'imbracatura e qualche giro di nastro da pacco. L'unico neo era che, al momento di togliermi tutto, mi sarei fatta un male cane.

– Allora, niente stupidaggini e se ti pare, solo ti pare, di essere in pericolo, prima chiami la polizia e dopo chiami me – mi raccomandò dopo avermi fatto estrarre la pistola per la quindicesima volta ed essersi assicurata che non si incastrava da nessuna parte.

– Guarda che sei identica precisa a mia madre.

– Cosa ho detto?

– Senti, – sbuffai – non ho la minima intenzione di finire sparata o roba del genere. Faremo un giretto e ce ne torneremo qui, tu le dirai di essere ragionevole e tutto sarà sistemato in un paio d'ore.

Scendendo le scale ricordai l'espressione ostinata di Eleonora quella mattina e mi resi conto che non sarebbe stato così facile. Ne ebbi la certezza quando la trovai in strada ad aspettarmi.

– Andiamo? – mi chiese con quella sua voce nuova e dura.

– Andiamo.

Alzai lo sguardo alle mie finestre e Catia mi fece un cenno di saluto pieno di preoccupazione.

Glielo avevo detto: identica precisa a mia madre.

Alle tre cominciò a piovere e l'ombrello l'avevo rotto in testa ad uno che mi aveva chiesto se volevo lavorare per lui nell'undicesimo o dodicesimo locale, chi se lo ricordava.

– Il prossimo è il Kissing Pink – sarà stata la forza della disperazione, ma Eleonora sembrava fresca come una rosa. – È un nome buffo. Perché si chiamerà così?

– Secondo te quello di prima si chiamava Deluxe per far sentire a loro agio gli scarafaggi sulle pareti?

Ero arrabbiata e mi sentivo stupida come mai in vita mia, anche perché di risultati non ce n'erano stati. Sì, Paolo lo conoscevano, ma lo descrivevano come un tipo riservato e silenzioso, che sceglieva ogni sera una ragazza diversa e non stringeva amicizia con nessuno.

– Siamo arrivate. Entriamo.

– Senti, Eleonora, perché non andiamo da me invece? – non ne potevo più di stucchi in cartongesso e tende di velluto piene di polvere – Bere qualcosa di caldo farebbe bene ad entrambe.

– Voglio andare avanti.

Sarà stata la decima volta, quella notte, che provavo a farle lavorare il cervello.

– Fino ad ora ho fatto quello che hai voluto e ti ho accompagnato in posti che non vorrei vedere nemmeno in fotografia. È un miracolo se non ci hanno ancora aggredite e ho anche perso il mio ombrello nuovo. – un sorriso stentato le comparve sulle labbra – Bene, questo è un inizio, vuol dire che non è tutto distrutto, no? Ascoltami. Non sarà facile, ma ce la farai. E adesso andiamo a casa.

Mi incamminai lungo la strada sperando che mi seguisse.

– Ancora qui. Ti prego.

Aveva una voce piccola piccola. Mi girai e la vidi stanca.

Allora ricordai quando erano venuti a dirmi che papà mio era morto e io non ci volevo credere e non ci credevo ancora ed erano due anni che aspettavo mi telefonasse per invitarmi a cena e questa sì che era una cosa stupida e chi cavolo ero io per annientarle la speranza.

– Va bene, ancora qui. Giura.

– Giuro.

Non piangere, coccola.

Non piango, papà.

Ci sedemmo al banco e ordinammo due Margarida.

Papà mio diceva sempre che quando si lavora bisogna star lontano dall'alcol, ma io avevo bevuto acqua minerale e limone tutta la notte e adesso non ne potevo più.

– Lo conosci? – chiesi al barman mostrandogli la foto di Paolo.

– Forse. Ti importa?

– Abbastanza. Non farmi penare, chi è?

– Chiedilo a Johana. È il suo uomo.

– A chi?

– A lei – e mi indicò il palchetto in fondo alla sala semibuia, dove una bella ragazza faceva lap dance.

No, ho sbagliato, non era bella, era splendida e brillava di luce propria come solo poche persone riescono a fare. Ecco, pensai, se io fossi così, non avrei più problemi.

– Ma che cosa ha detto? – mi ero scordata di Eleonora – Che cosa significa?

– Significa che ora stai qui tranquilla e io vado a parlare con la signorina. Beviti un altro drink, da brava – meglio ubriaca che isterica.

– Vengo con te.

– Escluso – feci un cenno frettoloso al barista. – Dalle tutto quello che vuole.

Johana stava collezionando banconote nelle mutandine. Niente di male, non ne conosco molte capaci di indossare un bikini di lustrini senza rendersi ridicole.

Scese dal palco fra gli applausi e sparì dietro una tenda rossa. Le tenni dietro.

Mi ritrovai in un corridoio lungo e stretto, pieno di porte, tubi, muri scrostati e odore di umido come in una vecchia cantina. Lo percorsi quasi tutto prima di trovare una porta su cui qualcuno aveva scritto il nome della ragazza con una biro. Bussai ed entrai.

Stava allo specchio e si era tirata indietro i capelli bruni e ondulati.

– Non vado con le donne – mi disse.

– Nemmeno io – posai la foto di Paolo in mezzo ai barattoli di fondotinta e mi sedetti.

– Racconta. Mi piace ascoltare.

– L'ho conosciuto sei mesi fa, ma lo vedevo da un anno, forse due. Quella sera era triste e gli chiesi perché. Dice: devo sposarmi. È una buona cosa di solito, ma non era buona per lui, perché non amava la sua fidanzata che era ricca, ma neanche per i soldi riusciva a farsela piacere. È stato gentile, tanto, poi è venuto da me quella sera e quella dopo e alla fine ci siamo messi insieme. Viveva con me, dormiva con me, tornava a casa sua solo per non far capire niente a quella là e lei non ha mai capito. È bravo, Paolo. È furbo. Stavamo bene, sai? Ma un giorno dice sono stufo. Di cosa, chiedo, di me? E lui mi abbraccia e risponde che è stufo di vedermi qui, al locale e di non avere soldi per farmi regali e per portarmi in vacanza. Sposa la tua fidanzata ricca, gli ho detto ridendo, ma non c'era niente da ridere ed è allora che gli è entrato in testa quel pensiero. Lo vedevo, era sempre lì, un pensiero pericoloso, brutto. Tre giorni fa mi dice che starà via un po' e che non mi devo preoccupare, l'altra notte torna sporco di sangue e dice l'ho fatto per te. Come, ho gridato, per me? Sei matto, non ti ho chiesto niente. Senti, non chiamare la polizia, lo convinco, lui mi ascolta, gli dico che è meglio se va a dire che è stato lui. Credimi, ti giuro. Questa volta non scappa. Ti prego.

Non siamo sbirri, diceva papà mio.

Così le credetti e la lasciai davanti allo specchio a cercare il modo.

Mi preoccupava Eleonora, però. Anch'io dovevo trovare il modo, ma come fai a dire a una donna che l'uomo che ama stava con lei solo per i soldi e che, a un certo punto, non erano bastati neppure quelli? Che mondo brutto e cattivo.

Al bar non la vidi.

– Dov'è? – chiesi al barman.

– Chi?

– Senti, bello, ho avuto una notte orrenda.

– Non cercate Paolo? È arrivato e sono andati via insieme. Dal retro.

Eleonora perché sei così sciocca? Mi precipitai verso la porta che il tipo mi aveva indicato, poi mi fermai.

Calma, pensai, se adesso vado lì come una furia, metti che quello si spaventa e fa qualche scemata. Calma, con calma.

Riuscii a girare la maniglia senza farla cigolare troppo e scivolai oltre la soglia.

Era un cortile, un semplice cortile quadrato con sacchi dell'immondizia e un'ipotesi di prato, non c'era nient'altro lì, a parte Eleonora e Paolo. Lui aveva una pistola e io sentii il sudore scendermi lungo la schiena. Mi venne anche da piangere, forse perché erano così diversi da come li avevo visti la sera della festa, o forse perché lei era uguale e lui era diventato un estraneo.

– Perché? – quella ragazza era fissata con le domande.

– Hai mai vissuto di briciole, tu? Penso di no, ma io sì e mi sono stufato.

– Da me non avresti mai avuto briciole, Paolo, perché non ti sei fidato di me?

Brava, tienilo in chiacchiere, pensai, intanto io prendo coraggio e la finiamo.

– Fidarmi di te e del paparino. Non ti ho mai amato, stupida, ho creduto di potermi adattare. Sai quante ce ne sono meglio di te.

Misi la mano in tasca e la richiusi attorno al calcio della pistola che uscì fluida dalla fondina e io mi ritrovai a spianarla sotto la luce dell'unico lampione tisico. Mai stata così veloce.

– Ti prego ti prego ti prego. Non farmi sparare! – gridai.

Non mi fece sparare, chissà perché, non credo di averlo impressionato molto. Forse non se la sentiva più, forse non era quel mostro che pareva, forse aveva pensato a Johana, forse a Eleonora e a tutto quell'amore. Forse.

Almeno la storia è finita senza altri morti, dice Catia, ma lei è un vigile e non può capire.

Ho visto Eleonora l'altro giorno, camminava persa nei suoi pensieri e dicono non sia più quella di prima. Dicono anche che, una volta alla settimana, va a trovare Paolo in carcere. Chissà di cosa parlano. Ma tu vai a spiegare a Catia che si può morire e continuare a camminare. E non parlo del fantasma della sua amica Valentina.

A me sono piovuti addosso tanti lavori che nemmeno me l'aspettavo e solo perché hanno parlato un po' di me in televisione. La gente è strana, proprio, diceva papà mio. Strana e sbagliata.

Qualche volta, se finisco di lavorare tardi, vado al Kissing Pink. Chiacchiero con le ragazze e se ho fame, mettiamo su una pasta e mangiamo insieme e loro mi parlano di uomini e dei figli che hanno lasciato a casa. Johana scrive a Paolo delle lunghe lettere e poi dà le buste a me, così gliele spedisco la mattina, quando vado in agenzia. Vuole sdebitarsi, anche se le ho detto che non importa. Cosa vuoi che sia un francobollo ogni tanto.

Ma lei ci tiene. Mi ha detto che mi insegnerà come si mette l'eye liner.

 

Elena Vesnaver è nata a Trieste, dove vive e lavora. Dopo i tre anni d'Istituto d'Arte Drammatica, ha registrato, tra  i diciotto e i ventitré anni, presso la  sede RAI di Trieste, tanti sceneggiati radiofonici, interpretando un pulcino, Maria Callas bambina, Mozart bambino, il bambino di una cantante lirica, una bambina, un altro pulcino, Gershwin bambino, la figlia, il figlio, un nipote. Nel 1988, insieme a Maurizio Silvestri, ha fondato Teatrodellaluna, ed ha iniziato a scrivere i testi degli spettacoli.Tanti i libri che si possono scorre sul suo sito:

http://www.teatrodellaluna.it/vesnaver/chisono/index.htm