Sarà la Ville lumière, ma Parigi ha angoli d’ombra. Non quelli turistici di Saint Germain, Montmartre e Montparnasse. Bisogna cercarli dietro la giovialità un po’ ostentata dell’ultima grande potenza coloniale rimasta sul pianeta. Perché Parigi non ha mai rinunciato ai suoi possedimenti d’oltremare. Da Napoleone a De Gaulle, per finire con Sarkozy, la leadership francese ha in comune un obiettivo: assicurare al Paese l’indipendenza nel campo internazionale e la supremazia diplomatica come base della grandeur. Materia preziosa nei circoli dello spionaggio. Quello francese, non di rado, ha seguito direzioni tutte proprie, in dissonanza con gli alleati occidentali. Ecco dunque la terza capitale delle spie.

          

A Parigi, i veri palazzi del potere non sono quelli sotto gli occhi di tutti. Alcune decisioni importanti in politica estera passano dall’Eliseo al 128 di Boulevard Mortier, nella zona nord-est di Parigi, XX arrondissement. Lì c’è un brutto edificio di 10 piani, che in precedenza era una caserma. Si affaccia su Rue Tourelle, accanto alla grande piscina comunale, ed è detto per questo La Piscine. Ma gli addetti ai lavori lo soprannominano Le Service, La Centrale, La Maison, o solo Boulevard Mortier. È il quartier generale della DGSE, Direction Générale à la Sécurité Extérieure, massimo organismo d’intelligence francese. Conobbe il suo massimo splendore dal 1970 al 1981, sotto la direzione del conte Alexandre de Marenches, che lo definiva le mille-feuilles, il millefoglie, perché un servizio segreto, come quel dolce di pasta frolla, è fatto di mille strati sovrapposti.

Kerwin Mathews nei panni di OSS117
Kerwin Mathews nei panni di OSS117
In quelle stanze probabilmente si pianificò l’affondamento del Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace che interferì con gli esperimenti nucleari francesi. La Francia si comporta da impero coloniale mentre altre potenze si limitano a tutelare interessi regionali. Per questo, insieme ai possedimenti d’oltremare, conserva uno stuolo di agenti segreti fittizi. Alla testa dei quali, il colonnello Hubert Bonisseur de la Bath, nome in codice OSS 117, creato nel 1949 da Jean Bruce, quattro anni prima che Ian Fleming facesse esordire il suo 007. Originario della Louisiana, ma di discendenza francese, nel corso delle sue missioni per conto di Washington finisce sempre per proteggere gli interessi di Parigi. Meno popolare all’estero ma celebre in Francia è Francis Coplan, l’agente FX 18, benché dovuto alla coppia belga Gaston Van den Panhuyse e Jean Libert, che si firmavano con lo pseudonimo di Paul Kenny. La serie proseguì anche dopo la morte degli autori, ripresa da Serge Jacquemard. Infine SAS, Sua Altezza Serenissima, il principe Malko Linge, frutto del talento narrativo di Gérard de Villiers. Con le sue avventure molto legate alla cronaca, la spy-story francese tocca apici di sesso e sadismo che azzerano il politicamente corretto.

         

Questa prima galleria serve a ribadire che Parigi fonda la tradizione di intelligence nella propria politica espansionista, mai piegata alle ragioni dello stesso schieramento occidentale. Lo dimostra il concetto di grandeur propugnato da De Gaulle, che volle l’uscita della Francia dal comando militare della NATO nel 1966 e lo sviluppo di una force de frappe nucleare autonoma.

Sono, comunque, le premesse più recenti per uno sguardo alla ricaduta spionistica su Parigi. Il culto di una supremazia culturale prima ancora che territoriale, precede la parabola di Napoleone. Richiama, forse, la valorosa ed ostinata riluttanza dei Galli nell’arrendersi a Cesare. Atteggiamento storicamente accertato, che conferisce credibilità ad Asterix, di Goscinny e Uderzo.

Di fatto è possibile rileggere come spy-story molto retaggio d’oltralpe. Le imprese di Giovanna d’Arco, per esempio, condotte in campo aperto sul filo rosso della diplomazia segreta. La trilogia di Alexandre Dumas padre, I tre moschettieri, Venti anni dopo e Il visconte di Bragelonne, non va letta fermandosi all’apparenza dei duelli e delle tresche amorose. Lo sfondo, le motivazioni ed i personaggi appartengono al canone più ortodosso dell’intelligence. D’Artagnan, Athos, Porthos ed Aramis agiscono da perfetti “operatori sul campo”, denominazione tecnica degli agenti segreti. E Milady prefigura non già le perfide cattive dei romanzi e dei film di serie B degli anni ’60, bensì una professionista, curatrice di interessi reconditi come alcune spie autentiche della Guerra Fredda.

Perfino dietro la mitica versione televisiva di Belfagor, dal romanzo di Arthur Bernède, si nasconde una caccia disperata a risorse energetiche essenziali nella lotta fra le grandi potenze. Analogamente accade in un altro sceneggiato francese di culto degli anni ’60, I compagni di Baal, dove l’equivalente contemporaneo del Graal è l’oricalco, un minerale che si pensava di sfruttare per la tecnologia bellica.

         

Fr
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Nel corso della Seconda guerra mondiale, l’occupazione tedesca di Parigi non ne sminuisce la portata di crocevia spionistico. I francesi avevano compiuto passi notevoli sul terreno della ricerca atomica. Il fisico Fréderic Joliot-Curie, insieme alla moglie Irene, era stato fra gli artefici della scoperta del neutrone, nel 1935. Dopo il 1940, quando la svastica prese a sventolare su Parigi, lo scienziato occultò le sue scoperte passandone i documenti a Hans von Halban e Lew Kowarski, esuli nel Regno Unito. Dopodiché si impegnò nella resistenza aderendo al Front national.

E Parigi restava il centro operativo di tutta la rete antinazista. Nella quale spesso finivano per impigliarsi le beghe fra i servizi segreti alleati. Specie i due competitori inglesi, il SOE, Special Operations Executive, dedito ai sabotaggi, ed il SIS, Secret Intelligence Service, o MI6, che puntava sulla raccolta delle informazioni.

           

Trascorsi noti ad un uomo che aveva lavorato nei servizi segreti della marina britannica ed era passato a scrivere romanzi di spionaggio. Ian Fleming esamina Parigi con gli occhi di James Bond in “Paesaggio e morte”, il primo racconto del volume antologico Solo per i tuoi occhi. 007 si trova nella capitale francese per un’azione da sicario, e l’autore ne mostra l’atteggiamento verso la metropoli: «Dal 1945 non aveva trascorso una sola giornata serena a Parigi. Non perché quella città avesse venduto il proprio corpo. Molte altre l’hanno fatto. Era il suo cuore che era scomparso: venduto ai turisti, venduto ai russi, ai rumeni e ai bulgari, venduto alla feccia di tutto il mondo che poco a poco aveva invaso la città».

Snobismo da londinese dei club? Forse. O amarezza profetica di una globalizzazione che appiattisce anche le scenografie più spettacolari. Del resto, la Parigi di dopo avrebbe conosciuto come Londra l’impatto crudele dei nuovi intrighi internazionali, a base di bombe nella metropolitana e periodici allarmi terroristici sulla Torre Eiffel.