Lebanon, ossia la guerra, quella contro il Libano del giugno ’82 Sinai, come non l’abbiamo mai vista e forse come non è mai stata raccontata. Ci voleva un regista israeliano, Samuel Maoz (che si aggiunge ad Amos Gitai…) che quella guerra prima l’ha vissuta in prima persona e dopo averla incubata per ventisei lunghi anni, è riuscito a restituirla sotto forma di film.
Il punto di vista è quello quanto mai angusto e parziale dell’equipaggio di un carro armato che confinato in un cubicolo d’acciaio si trova a vivere un’esperienza allucinante dove i nemici sono tutt’attorno, la protezione offerta dalle lamiere quanto mai fittizia, e gli unici movimenti consentiti sono quelli sulle direttrici basso-alto, alto-basso, quelli insomma di chi entra e chi esce dalla torretta.
L’angoscia, il disorientamento percettivo di chi guarda la realtà circostante attraverso il mirino di un cannone, il mors tua vita mea di ogni guerra, ci sono tutti.
Forse a mancare è la tenuta drammatica della storia, come se il punto di vista scelto, quanto mai angusto, togliesse al film la necessaria, e indispensabile, vicinanza tra carnefici e vittime.
Leone d’Oro come miglior film alla 66ma Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.
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