Sailing to Byzantium

That is no country for old men. The young

in one another's arms, birds in the trees,

- those dying generations - at their song,

the salmon-falls, the mackerel-crowded seas,

fish, flesh, or fowl, commend all summer long

whatever is begotten, born, and dies.

Caught in that sensual music all neglect

monuments of unaging intellect.

(W. B. Yeats)

 

Ci siamo, pronti, via. Eccolo Non è un paese per vecchi, uscito in sala qua da noi alla quasi vigilia della notte degli Oscar e portatosi a casa quattro statuette su otto candidature (film, regia, sceneggiatura non originale ad Ethan e Joel Coen, attore non protagonista a Bardem che già s’era aggiudicato il Golden Globe). Non è un paese per vecchi, tutti d’accordo, ma allora che paese è, anzi, per chi è? Verrebbe voglia di dire che è un paese inadatto a tutti vista la facilità con la quale si muore, vecchi, giovani, uomini, donne. Si muore per lo più falciati da una scarica di pallottole o con un arnese che serve nei mattatoi per uccidere il bestiame. Si muore in qualunque luogo, anzi in luogo qualunque. Si muore in pieno deserto, sulle strade, alla guida di un auto, nelle stanze dei motel, a casa propria, in ufficio, nei bagni. Quasi mai si muore subito. Di solito si muore dissanguati cianciando qualche parola incomprensibile.

A dare il via alla mattanza è un maledettissimo giorno, quello in cui un tale di nome Llewelyn Moss (Josh Brolin) uscito a caccia di antilopi, s’imbatte nel bel mezzo del deserto in un macello di corpi frutto di uno scambio “io do la droga a te e tu dai due milioni di dollari a me” finito in vacca. Via la valigetta e via Moss con lei. Sulle tracce dei due (Moss e la valigetta…) i proprietari della droga, i proprietari dei dollari, un sicario di nome Anton Chigurh (Javier Bardem) che si pronuncia scigur (con l’accento sulla “i”) del quale un tizio che lo conosce bene e che di nome fa Wells (Woody Harrelson), pure lui sulle tracce di Moss e della valigetta, dice che quanto a pericolosità è paragonabile “alla peste bubbonica” (“con le gambe”, aggiunge chi scrive…). Ad inseguire tutti quelli che inseguono Moss e la valigetta, uno sceriffo di nome Bell (Tommy Lee Jones) che pensava di aver visto tutto (e invece no…).

Se ogni genere è “la promessa di un rapporto con un mondo…”, anche quest’ultimo film dei fratelli Coen lo è. Il mondo che si annuncia però si sdoppia, anzi si fa in tre: “film d’inseguimento”, “western crepuscolare”, “noir”. La tripartizione proviene, è risaputo, dallo straordinario romanzo di Cormac McCarty (segnalo Noi tre il cinema e il west, resoconto dell’incontro tra McCarty e i fratelli Coen su Repubblica del 22 febbraio a cura di Lev Grossman, testimonianza assai preziosa giacché McCarty, settantacinquenne, pare abbia rilasciato in vita sua solo tre interviste…). Il romanzo di primo acchito potrebbe sembrare scritto anche da Elmore Leonard, ma quello che lo rende unico, e al tempo stesso insidioso, è altro. L’unicità deriva dal taglio riflessivo che McCarty gli imprime, l’insidia è che sembra un romanzo di facile trasposizione ed invece non lo è affatto. Capiamoci: da un lato, e chi lo ha letto lo sa bene, è un romanzo con dentro tantissima azione, azione che McCarty declina sotto forma di situazioni cruente, sparatorie e relativi cadaveri, e situazioni molto comuni come l’acquisto di abiti (le pallottole, si sa, fanno dei buchi nella stoffa e da quei buchi esce il sangue che sporca i vestiti …), l’entrare in un motel per affittare una stanza, nascondere qualcosa (la valigetta) per poi recuperarla, entrare in una farmacia, rubare dei medicinali, automedicarsi (magari queste ultime due non sono proprio comuni…), tutte azioni che si prestano particolarmente bene ad essere messe in immagini. Al tempo stesso McCarty affida allo sceriffo Bell il compito di portare avanti una serie di riflessioni sul perché di questa scia di violenza che imprimono alla storia il tono oscuro e terribile di una profezia che sta per avverarsi attraverso la presenza e le gesta di Chigurh.

Il problema quindi che i Coen si sono trovati a dover fronteggiare non era dei più semplici. Che fare delle due parti del romanzo? La scelta è stata quella di lasciare intatta tutta l’azione, salvo qualche piccolo cambiamento trascurabile, a scapito della parte per così dire più riflessiva.

Sarà per questo che Non è un paese per vecchi qua è là mostra la corda con un procedere a tratti singhiozzante, come se nella riduzione fosse venuto meno qualcosa di essenziale, come se l’azione si sviluppasse meccanicamente senza riuscire mai a diventare spunto di riflessione, come accadeva, per fare un esempio, in Fargo, al punto che i rimandi tra i personaggi, le immagini prima Chigurh e poi di Bell entrambe riflesse nello schermo del televisore (che nel libro manca…) e l’altro rimando, stavolta tra Moss e Chigurh, che in momenti diversi chiedono degli abiti a dei ragazzi incontrati per strada (già presente nel libro…), a suggerire una sorta di somiglianza tra i tre, non incidono più di tanto.

Altro problema non trascurabile è quello di chi si trova nei panni della preda, visto che Josh Brolin pare fondamentalmente incapace di dare corpo e sostanza al suo personaggio rimanendo molto lontano da ciò che ci aspetteremmo di trovare in chi fugge sapendo benissimo che chi lo insegue non cesserà un momento di cercarlo. Siccome è difficile credere che i Coen abbiano improvvisamente dimenticato come si dirige un attore, non resta che interpretare il tutto come una sfavorevole coincidenza che ha messo l’attore sbagliato nel posto sbagliato, anche perché la prima scelta si chiamava Heath Ledger (addio Heath, ci mancherai…).

Così rinunciando, tagliate via gran parte delle riflessioni di Bell, Non è un paese per vecchi rimane un po’ appeso nel limbo dei film certo interessanti, ma proprio riusciti.

Si salva, neanche a dirlo, la figura di Chigurh, l’unica che rimane pressoché intatta nel passaggio dalla pagina allo schermo, vera e propria figura archetipica senza passato e senza futuro, sbucata dal nulla e nel nulla destinata a tornare non senza prima aver lasciato attorno a sé tracce evidenti di un destino che compie il suo implacabile percorso alla stregua di ogni destino che si rispetti, in fondo imparziale purché si sia disposti a condividerne la logica feroce che lo guida.