Da “Un colpo solo, un colpo solo” (De Niro in Il cacciatore) a un Padre nostro (integrale) che prelude all’ennesimo cervo caduto. Cui prodest? Ad insufflare nell’incipit un sottotesto biblico che scorterà questo Prisoners, del canadese Denis Villeneuve (suo La donna che canta, qualche anno fa…), in un dimensione allucinata, quasi un occhio per occhio dente per dente che inizia come una festa (il giorno del Ringraziamento) e che prosegue come un incubo, una discesa agli inferi degna di questo nome e che assume i contorni multiformi di un duplice rapimento di bambine, di tanti sospetti e poche certezze, ma soprattutto di un padre torturato (dai rimorsi…) e torturatore di colui che appare come l’indiziato principale, il tutto calato in un universo chiuso a doppia mandata tra quattro case, un ospedale, un comando di polizia, il tutto annaffiato da un quintale di pioggia.

Sconsigliato fortemente a chi genitore è, a chi sta per diventarlo, a chi vuole diventarlo, a chi pensa che lo diventerà (quindi in teoria a parecchi di noi…) e che invece potrebbe non esserlo per via del solito finale che pecca di cerchiobottismo spinto. Però nei tre quarti che lo precedono Villeneuve guida come faceva il suo omonimo scavando crepacci morali così profondi che se pure stai accorto e ti limiti a rimanere sul ciglio e a guardare giù come insegna Nietzsche dopo un po’ è il crepaccio che inizia a guardare in te. Un film senza scampo ma con tanto scalpo, capace di attingere rimanendo integro a tanti altri film, Un borghese piccolo piccolo, Sympathy for Mister Vengeance, Mystic River, Zodiac, capace di dar corpo, forma e sostanza agli incubi più strazianti per un genitore, capace di scandagliare il lato perverso della piccola provincia che cova i suoi orrori come cuccioli indifesi pronti però a sbranarti appena se ne presenta l’occasione.

Nell’esagono delle interpretazioni (due coppie di genitori, un detective, il presunto rapitore), i riflettori sono sul terzetto composto dal padre furente/dolente Hugh Jackman, dal detective Jake Gyllenhaal e dal sospettato Paul Dano. Dei tre quello che gode di più libertà emotiva è ovviamente il primo, mentre il terzo è la vittima “quasi” sacrificale, ottuso e gonfio per esigenze di copione, non molto in campo e spesso, quando lo è, nascosto.

Il migliore è Gyllenhaal, uno “sbirro” introverso, non divorziato, non alcolizzato, né buono né cattivo, uno da pensiero fisso (come risolvere il caso?), uno che non si arrende mai, sul pezzo ventiquattrore su ventiquattro, magari non un fulmine ma costante, capace di superare incidenti di percorso (vedi il secondo interrogatorio…) che ammazzerebbero chiunque. Gyllenhaal, giovane com’è, sembra un veterano del ruolo.