Nel 1831 lo scrittore britannico Thomas Carlyle inizia a scrivere il “Sartor Resartus” (“Il sarto rappezzato”), romanzo che viene pubblicato a puntate sulla rivista “Fraser’s Magazine” negli anni successivi, e infine presentato in volume unico prima nel 1836 a Boston poi nel 1838 in patria. Gustavo Strafforello, nel suo articolo “Moderni umoristi inglesi” (“Rivista contemporanea”, vol. X, 1857), definisce il “Sartor” «una delle opere più bizzarre che sieno mai venute in luce e non paragonabile - per la forma, non già per la sostanza - che al “Gargantua et Pantagruele” di Rabelais». (Quest’ultima opera è stata argomento dell’articolo precedente)

Il romanzo si presenta come un commentario, un’analisi che Carlyle fa di un’altra opera: il saggio “Die Kleider. Ihr Werden und Wirken” (“Gli abiti, loro origine e influenza”) dell’autore tedesco Diogenes Teufelsdröckh. Nella seconda parte del “Sartor” si trova anche la biografia di questo autore, fornita a Carlyle direttamente da un amico personale del Diogenes. Come si può immaginare, non esiste alcun Teufelsdröckh né tanto meno una qualsiasi sua opera: Carlyle si diverte ad inventare un libro e a commentarlo... proprio come farà un secolo dopo un suo estimatore: l’argentino Jorge Luis Borges.

Proprio quest’ultimo, in un’introduzione del 1945, scriverà riguardo Carlyle: «Scrisse profeticamente, in pieno Ottocento, che la democrazia è il caos provvisto di urne elettorali e consigliò la trasformazione di tutte le statue di bron­zo in utili vasche da bagno di bronzo. Non conosco libro più ardito e vulcanico, più travagliato dalla desolazione, del “Sartor Resartus”»

Thomas Carlyle non ammette apertamente, nel libro, di star parlando di uno pseudobiblion, ma è certo che si diverte parecchio ad affibbiare all’autore immaginario un nome quanto meno paradossale: egli infatti fa Diogenes di nome (“figilo di Dio”) e Teufelsdröckh di cognome (“sterco del diavolo”), vive a Weissnichtwo (“Non si da dove”, nome decisamente appropriato per un non-luogo!) e pubblica per la casa editrice Stillschweigen & Co. (“Silenzio e C.”).

Il “Sartor Resartus”, attraverso l’io-narrante di un non meglio specificato editore, si propone quindi di analizzare, a volte in modo sferzante, un saggio sugli abiti di un oscuro filosofo tedesco: una ghiotta occasione per l’autore, quindi, per lanciare strali contro l’utilitarismo, che considerava piaga dei propri tempi, la perdita dell’amor patrio e il consumismo spersonificante. A questo proposito, ecco un’illuminante citazione: «Gli Abiti hanno fatto di noi Uomini; essi minacciano di fare di noi degli attaccapanni».

Carlyle veniva chiamato “The Great Censor of the Age” dai suoi contemporanei, un gran censore del secolo che non si univa alle schiere di scrittori inneggianti al progresso universale, che invece l’autore considerava troppo “materiale”: egli era per un progresso “umano”. Chiama la sua èra “The Age of Machinery”, una meccanicizzazione estrema che ha invaso campi a lei estranei come la filosofia e la religione, portandoli alla perdita del loro originario valore. Gli abiti sono ottimi simboli di questa “veste” che ricopre ciò che di più è umano, e lo pseudobiblionDie Kleider” aiuta Carlyle a supportare questa tesi. «Le prime umane vesti furono le foglie del fico; la colpa fu il primo sartore, ed oh! quanto ebbe l’umana razza a pagar caro quell’adamitico rudimentale indumento, perciocché alla foglia tenne poi dietro l’asse - la bara - ultima veste dell’uomo!» [traduzione del 1857]

Malgrado l’opera sia poco conosciuta (e stampata) in Italia, nel 1847 se ne occupò niente di meno che il politico e filosofo Giuseppe Mazzini. Nel suo “Scritti letterari di un Italiano vivente” il Mazzini si rivolge a Diogenes in persona. All’accorato appello del personaggio inventato da Carlyle, «Lasciatemi riposar qui perché sono stanco del cammino e stanco della vita», il Mazzini risponde «Ohimè! no, povero Teufelsdroech! non v’ha riposo qui sulla terra. Poco monta che le membra siano rotte, esauste le facoltà. La vita è un conflitto ed una marcia; i “grevi sogni” ritorneranno; noi viviamo ancora troppo al basso; l’aere che ci circonda è ancora troppo pesante perché essi possano dissiparsi. Il coraggio sta nel farsi innanzi in mezzo ad essi, e a loro dispetto, – non nel fare che si dileguino».

Chiudiamo ricordando che in quest’opera Carlyle, oltre ad inventare un libro inesistente, inventa una parola che invece esiste: “industrialismo”.