Dientro l'acronimo I. M. D. c'è un ragazzo del '73, componente della squadra Catturandi di Palermo. Si occupa di intercettazioni ambientali e telefoniche e ha contribuito alla cattura di Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e di altri capimafia. L’11 novembre 2007 è stato tra gli investigatori che a Giardinello hanno arrestato i superlatitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo e due dei loro complici. Laureato in Scienze politiche, collabora con la cattedra di Sociologia giuridica della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo.

Catturandi, ha la straodinaria capacità di inquadrare i nodi del problema della lotta alle mafie senza cedere all'autocelebrazione. A parte vizi venali di struttura, è un libro che punta al nocciolo della questione; come vedrete nel corso dell'intervista, è un testo pensato inizialmente per un pubblico specifico, ma che parla chiaro ai cittadini.

Ma non abbiamo parlato solo della genesi e del contenuto di Catturandi; il discorso si è esteso anche a quella che potremmo definire come "mafiosità latente", un'epidemia dilagante il cui vaccino è stato scoperto da anni, ma che non tutti hanno il coraggio di somministrarsi: la cultura della legalità.

Chi ha già letto Catturandi lo sa, ma sarebbe utile far conoscere a chi ci legge in questa sede le motivazioni che ti hanno spinto a scrivere il libro.

Il libro nasce come un "compendio" indirizzato ai giovani universitari sul fenomeno della latitanza. Lo scopo era quello di avvicinare i ragazzi alla realtà delle investigazioni di polizia, senza la mediazione filmografia o romanzesca. Un approccio scientifico a un mondo affascinante e al contempo rischioso, quale è quello dei "catturanti": poliziotti che, entrati giovanissimi a far parte di questo gruppo, oggi – a distanza di più di un decennio – continuano a esserne la colonna portante. Il compendio ben presto ha preso vita e, da solo, si è trasformato in un libro che è a metà tra il saggio e la narrativa, e racconta episodi, aneddoti, esperienze lavorative, ma fornisce anche informazioni e curiosità sulla vita dei poliziotti, delle loro ricerche, delle loro "prede" e delle tecniche adoperate per la loro cattura.

Da quello che hai scritto emerge un dato troppo spesso trascurato: la dispersione e la disorganizzazione delle risorse nella lotta alle mafie. Confermi?

Non sempre, ma alcune volte, soprattutto quando le indagini riguardano soggetti di un certo spessore criminale, accade che varie forze di polizia e vari magistrati (per i più svariati motivi) si contendano la "scacchiera". Questo potrebbe far ritenere che, più giocatori in campo e più risorse utilizzate significhino maggiore velocità nel raggiungimento di un risultato. Purtroppo non è così che funziona. Come già ho accennato nel libro, spesso la sovrapposizione di indagini ha complicato le cose e mai le ha agevolate.

Durante le investigazioni per la cattura di Vito Vitale, ad esempio, polizia e carabinieri spesso si sono incrociati nei pedinamenti, rendendoli inefficaci o addirittura vani. Lavorare di notte in zone ad alta densità mafiosa, e quindi molto pericolose, significa che se un’auto civetta dei carabinieri si incontra con una della finanza e non si riconoscono a naso, ci può scappare la sparatoria, cosa già accaduta in più di un’occasione, per fortuna mai a Palermo né in indagini da noi seguite.

Inoltre, se polizia e carabinieri, nel caso di un latitante, lavorano contemporaneamente su questo, ci sarà un altro ricercato, magari altrettanto pericoloso, se non di più, sul quale purtroppo non sta lavorando nessuno.

Razionalizzare le risorse, significa impiegare al meglio ciò che si ha, in modo organico, funzionale e quindi coordinato. Se un’indagine porta a quella di un altro organo investigativo, la cosa più ovvia è che qualcuno – in questa circostanza la magistratura – decida di affidare il caso a uno o all’altro oppure, in alternativa, crei un gruppo interforze che segua l’indagine per le rispettive competenze.

Nei miei scarsi quindici anni di servizio questo è accaduto forse una sola volta. Davvero troppo poco.

 

Ancora sulla lotta alle mafie: affermi - e a ragione - che l'azione repressiva  non basta e che la via alla risoluzione al problema passa  attraverso una più ampia penetrazione della cultura della legalità nella comunità e all'occupazione dello spazio che lo Stato lascia alla criminalità organizzata. Quanto pensi che la scuola sia importante a tale scopo?

La scuola è fondamentale, perché insieme alla famiglia e agli amici rappresenta uno dei più importanti elementi di socializzazione di una comunità. Tralasciando gli aspetti sociologici e pedagogici della scuola, e non volendo ripetere sempre le stesse cose – giuste, ma che poi appaiono vacue – io vivo di esperienze personali, e queste ti voglio raccontare.

Sin dalle medie, ad esempio, ricordo che la mia insegnante di storia, di cui mi è rimasto impresso persino il cognome, la mattina ci faceva leggere i quotidiani in classe e con lei, poi, partivano i dibattiti e i commenti. Era un modo per conoscere il mondo, con la mediazione di una persona culturalmente più preparata di noi che ci apriva le menti alla logica e alla ragione.

Alle scuole superiori, il mio primo professore di lettere lavorava anche nel mondo del teatro. Ricordo che per la prima volta, con i miei compagni di allora, assaporammo Verga, Pirandello, D’Annunzio, Gadda, De Filippo, ma anche autori come Richard Bach o come Brecht, e parliamo di una scuola per periti tecnici industriali, non di un liceo classico o scientifico.

Non posso immaginare che questo non abbia condizionato la mia vita. La mia insegnante di Diritto era la figlia del procuratore Scaglione, il primo magistrato a essere ucciso dalla mafia. Ricordo le sue lezioni sulla costituzione, la passione dei dibattiti, il nostro coinvolgimento nei movimenti studenteschi e in quelli politici. Io sono stato eletto rappresentante di istituto per due anni di seguito e ricordo ancora piacevolmente le battaglie di quel periodo: nulla a confronto con la ricerca di Bernardo Provenzano, ma allora, a 17 anni, erano tutta la tua vita.

Io, sono stato fortunato, e con me, lo sono stati quei trenta ragazzi che hanno avuto la fortuna di avere quei docenti e quella scuola. La legalità, il rispetto della vita e dei diritti altrui si acquisisce da piccoli e la scuola, a questo scopo, è fondamentale.

Ti piacerebbe che Catturandi fosse letto dai ragazzi nelle scuole? Secondo me ne ha tutte le caratteristiche...

Certamente! Ne sarei felice, oltre che onorato.

Tu parli della realtà in cui vivi e lavori, Palermo e la Sicilia. Una realtà molto esposta a livello dei media, così come la camorra in Campania (dove i media sotto letteralmente sotto scacco). Come sconfiggere invece la 'ndrangheta, che ha fondato la sua espansione sul "rimanere ai margini della cronaca"? Credi che le indagini sull'omicidio Fortugno e su Duisburg (rari esempi in cui i malavitosi-manager calabresi si sono esposti ai riflettori) possano essere una falla su cui insistere e fare breccia?

Uno dei problemi con la ndrangheta è che ancora bisogna registrare e

costituire da un punto di vista giudiziario il "soggetto associativo". Mi spiego in modo che tutti possano comprendere: se un rapinatore a Palermo colpisce una gioielleria, e la polizia lo arresta e lo identifica come appartenente a una famiglia mafiosa, non solo l’uomo risponderà del reato di rapina, ma – cosa ancor più importante – risponderà dell’aggravante legata al fatto che la rapina serviva a foraggiare l’organizzazione Cosa nostra. Ciò comporta un inevitabile aumento di pena per il reo, con l’impossibilità di usufruire di una serie di sconti e di attenuanti.

In Calabria, visto che ancora molte ndrine (famiglie) non sono riconosciute come tali, l’utilizzo di questa normativa antimafia è più difficoltoso. Per questo, anche la stessa identificazione e confisca dei beni diventa più complessa da realizzare.

In pratica, rispetto alle altre mafie, qui le forze dell’ordine sono un po’, diciamo, in arretrato. Le indagini sul caso Fortugno o la cattura di Strangio, però, dimostrano come le cose stiano cambiando ed evolvendosi al meglio. D'altronde, Il capo della mobile di Reggio Calabria è l’ex dirigente della sezione Catturandi di Palermo e con lui ci sono alcuni dei migliori investigatori che si sono formati proprio in questa scuola. Anche la procura calabrese conta su importanti e prestigiosi magistrati, come il procuratore Giuseppe Pignatone o il dottor Michele Prestipino. Io confido che anche lì verranno tempi molto duri per i mafiosi.

Occupandoti di intercettazioni il discorso cade spesso sulla comunicazione, della quale scrivi che "contribuisce a creare il sentimento di identità di gruppo, supporta i bisogni di tipo pratico e strumentale, risponde alle esigenze di comando da parte di chi detiene il potere". Ecco, personalmente l'ho trovato illuminate e 

agghiacciante perché alla seconda lettura ho traslato il tuo ragionamento al mondo che non è propriamente mafioso e che costituisce gran parte della vita quotidiana di un comune cittadino. A questo punto ti chiedo: quanto è riuscita a penetrare la mafia (come cultura, potremmo chiamarla mafiosità) nella nostra società? E per società intendo tutta la scala, dal basso del comune cittadino all'alto dell'amministratore o del politico.

La mafia è un fenomeno socio-politico, prima che criminale. Questo non lo dico io – non ne avrei le competenze – ma lo sostengono numerosi studiosi, tra i quali il professore e storico Carlo Marino che nella sua "Storia della mafia" (materia che dovrebbe essere insegnata a scuola), illustra proprio, in modo chiaro e completo, come la cultura siciliana sia in qualche modo permeata di mafiosità.

Ciò fa sì che ciascuno di noi, sin da bambino, dia un ruolo sociale al mafioso e non si sconvolga più di tanto se per andare nella migliore scuola bisogna rivolgersi all’amico al provveditorato; se hai un problema con l’insegnante e papà cerca di parlare con il preside o con l’amico assessore; se devi fare una tac in ospedale e vai dall’amico dell’amico primario, così da superare il turno; se devi vincere un concorso, chiami chiunque, dal papa a scendere, ecc.

Il sistema è corrotto alla base. Solo in anni e anni di duro lavoro, con le prossime generazioni potremo avere la speranza di un cambiamento. Ecco l’importanza di partire dalle scuole e dall’educazione culturale.

Domanda bollente. Tu ti occupi di intercettazioni, argomento che tuttora crea polemiche nella nostra classe politica. La mafia è un parassita che si nutre anche della politica. Ergo: mafia, politica e intercettazioni, testo libero.

Le intercettazioni sono uno strumento in mano alla polizia giudiziaria, alla magistratura e – non dimentichiamolo – alla difesa, che consente in modo quasi inequivocabile di venire a conoscenza di fatti e situazioni altrimenti non conoscibili né raggiungibili. Il 90% delle attività antimafia si compone di intercettazioni ambientali e telefoniche.

L’intercettazione, se registra un reato o qualcosa che riconduce a un reato, viene trascritta integralmente ed entra nel processo. Tutto ciò che si registra ma che non costituisce elemento di prova si consegna all’autorità giudiziaria, la quale, trascorsi i termini di legge, ne dispone la distruzione.

Cosa c’è di rischioso per il cittadino onesto in questa procedura io non lo so. Credo nulla. Se le mie conversazioni venissero intercettate, e si scoprisse che io ho trecento amanti, visto che questo fatto non costituisce reato, rimarrebbe nella mia sfera privata e personale. Se la registrazione di una mia accalorata conversazione finisse sul giornale, io chiederei a un giudice di intervenire, indagare e scoprire chi si è reso responsabile di un gravissimo reato, ma non chiederei che le intercettazioni fossero vietate per legge. Io la penso così.

Cosa significa essere poliziotti (con un ruolo così importante, poi) in un Paese in cui questa figura viene continuamente svalutata? Pensa a reparti che vengono istigati alla guerra urbana o a vigili urbani che giocano a fare gli agenti del LAPD... Vi capita qualche volta di sentirvi "abbandonati"?

Quando qualcuno parla di "volontà superiore" o "politica" che impedisce la cattura di un mafioso, io dico che parla di fantasie. Non sono convinto dell’esistenza di un terzo livello organizzato e organico alla mafia, capace

di impedire il reale svolgimento delle indagini. Se, però, 400 milioni di euro vengono tolti al comparto sicurezza e deviati alle polizie locali e all'impiego dell'esercito nel controllo del territorio, allora dico che queste scelte politiche, più o meno indirettamente, contribuiscono a far sì che quel mafioso continui a essere latitante. Siamo sempre stati bombardati da un concetto di polizia moderna, dinamica, di prossimità, capace di raggiungere il cittadino quando questo non può recarsi, ad esempio, a fare le denunce in commissariato. Tutto questo, oggi, è pura fantasia. Le esigue risorse consentono a stento di svolgere le fondamentali attività di polizia, non di certo quella che il legislatore aveva immaginato e aveva pubblicizzato. La destrutturazione della Polizia di Stato in favore di altre forze di polizia, meno preparate, fa sì che poi si verifichino fatti come quelli dei vigili urbani di una città, giustizieri di un ragazzino di colore, brutalizzato all'interno degli uffici del Comune; o ancora, la diminuzione di volanti per il controllo del territorio, in favore di tre ragazzi in divisa che passeggiano per il centro storico di Palermo, ma si guardano bene dall'avvicinarsi ai quartieri periferici, dove invece la loro presenza, anche solo fisica, sarebbe di effetto. Non ci sentiamo abbandonati, il più delle volte ci sentiamo traditi.

Il tuo libro è fondamentalmente un saggio. Ma credo che la tua esperienza possa gettare luce anche sulla narrativa. Cosa  consiglieresti a uno scrittore di fiction per evitare di fare apologia (anche involontaria) alle mafie?

La mafia è prevaricazione, ricatto, assassinio, rifiuto delle più elementari norme di convivenza civile. Io consiglierei a ogni sceneggiatore di guardare, almeno per una volta, le foto delle vittime di mafia. Non quelle dello scempio, però, né quelle tra le pozze di sangue, ma le altre, quelle delle persone vive, prima che divenissero vittime. Allora, chi guardasse con attenzione, vedrebbe tanti mancati padri, tanti mancati figli, tanti mancati professionisti, tanti mancati scienziati, tanti mancati uomini. Si accorgerebbe dello scempio fatto, della sofferenza provocata, delle occasioni perdute.

La mafia è questo! Chi la comprende nel suo intimo non ne potrà fare alcuna apologia, non ne potrà esaltare alcun aspetto, perché nella mafia non c’è nulla di esaltante.

Grazie, I.M.D., per l'intervista e soprattutto per il tuo lavoro, a nome di tutta la redazione.