Nel romanzo “Io sono la prova” (Flaccovio, 2007), colpisce il fatto che si giochi volutamente coi meccanismi del giallo: pur mantenendo la struttura classica, il romanzo è concentrato sulle conseguenze del delitto e non sul mistero da risolvere. Come mai questa scelta?

Bellissima domanda, la risposta è complessa: in realtà io, anche nei lavori televisivi, tranne alcune eccezioni, non ho mai privilegiato la “macchina del giallo”, il “chi è l’assassino?” per intenderci, ma ho sempre puntato sui grandi vantaggi che offre la struttura del giallo per scrivere sceneggiati - e adesso romanzi - nei quali il vero interesse è altro. Altro significa rapporti fra personaggi, il poter affrontare temi che sono tratti dalla vita, sviluppare la psicologia delle creature che si muovono come fossero reali. Non sempre ci sono riuscito ma adesso con questo romanzo credo di sì e sono contento che alcuni critici abbiano colto il segno, scrivendo che non è un giallo ma un romanzo sulla vita e sul dolore di vivere. Io amo il genere giallo, ci vivo da oltre 50 anni con questa passione professionale, da molti di più come lettore, ma non sopporto che in Italia si crei un ghetto nel quale sono confinati i libri di genere. Credo di conoscere bene le regole, però mi è sempre piaciuto non rispettarle: la struttura è un mezzo per arrivare a quello che vuoi realizzare, con questo libro intendevo entrare nel marasma della realtà e cogliere i lati oscuri della vita. Sono sempre i lati oscuri quelli che m’interesano, anche se un filo di speranza in fondo c’è sempre. A volte, molto in fondo.

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