L’ora di punta è l’ingolfo tra corruzione, arrivismo, bella vita, soldi facili. A dirigere il traffico l’ex finanziere Filippo (Antonio Lastella), pronto a mungere, grazie alla divisa che indossa, commercianti e imprenditori-mucche dalla contabilità disinvolta. Il percorso dalle stelle (dalle stellette, trattandosi di Guardia di Finanza) alle stalle sarebbe stato scontato, e allora Vincenzo Marra gira al largo, mentre tenere tutta la corruzione all’interno della Finanza sarebbe stato un poco sconveniente, e allora poco prima della metà la divisa finisce alle ortiche perché grazie a Caterina (l’icona Fanny Ardant) a Filippo riesce il gran salto nel sottobosco politico-affaristico che conta. Marra reinterpreta la commedia all’italiana di una volta, quella amara, quella di Sordi al massimo del cinismo. Però, se là il sottofondo era amaro e basta, qui il sottofondo è marcio, irrancidito (tra il lasciare la fidanzata storica, riciclare un anello di brillanti, far ammazzare qualcuno che ha iniziato a rompere non c’è poi tutta questa differenza), puzza. La regia di Marra è “statuaria”. Lo è nella misura in cui “scolpisce” sistematicamente e ripetutamente nello spazio-marmo delle inquadrature la figura di Filippo, icona impassibile di un male banale e fortemente antipatico. Come film non sconcerta, forse perché non urla il malaffare che tracima, e questo potrebbe essere un difetto, però nemmeno passa inosservato. Comunque non meritava i fischi a Venezia.