Caldo, fa sempre più caldo. Siamo solo a metà maggio e già si soffoca. Con questa umidità, poi, sembra di respirare ossigeno liquido. Sempre se si respira ancora ossigeno nelle grandi città, cosa di cui da anni dubito. Il sole, infuocato come non mai, è tramontato da un pezzo, ma l’asfalto trasuda ancora calore. Notte da starsene a casa con tutte le finestre spalancate a bere una birra ghiacciata in mutande, oppure passeggiare per le vie del Centro e bagnarsi in una fontana… non io, però: devo lavorare, fermare il pazzo di turno.

Chiamano me quando c’è in giro un aspirante suicida. Tutte le volte devo immedesimarmi con chi ho davanti, convincerlo che abbiamo molto in comune e che solo io posso aiutarlo. Come? Ogni caso è diverso, perciò lo decido al momento. Non per niente il mio mestiere si basa quasi tutto sull’improvvisazione. Oggi ho di fronte Carlo, sedici anni a novembre. Il suo senso di colpa è enorme: ha ucciso la sorellina quando ne aveva solo nove. Si erano messi a giocare agli antichi egizi dopo aver visto “La Mummia” al cinema. Purtroppo il ragazzo ha arrotolato troppo strette le lenzuola intorno al viso della bambina, soffocandola.

— …Se si avvicina ancora mi sparo, lo faccio sul serio.

— Va bene, non mi muovo, però tu ascoltami, ti prego. Io posso capirti.

O almeno tento di convincerlo che è così. So che non scherza, sa sparare: prima mi ha quasi colpito. Ho sentito un brivido lungo la schiena che mi ha gelato il sangue e ho dimenticato l’arsura degli ultimi giorni. Solo per un attimo, poi ho ricordato perché mi trovo qui, su uno dei tanti ponti della Città Eterna, a due passi da San Pietro. Il Tevere, in secca, puzza di pesce morto. I topi, enormi, lo attraversano da sponda a sponda e danno la caccia ai gatti.

— No, nessuno può capirmi. Sono un mostro.

No, una vittima: è stato un orribile incidente, di cui non ha colpa. Ma non mi crederà mai, perciò devo pensare a qualcosa di più grave del fratricidio. Caino sarebbe stato più maledetto, se avesse ucciso Eva? Non lo so, ci provo.

— Non più di me: io ho ucciso mia madre.

— Cosa?

Bene, la sua attenzione si è spostata su di me. M’invento com’è andata.

— Guidava e io facevo i capricci perché mi era caduto il pupazzo con cui stavo giocando. Per raccoglierlo, ha perso il controllo della macchina. Siamo finiti contro un albero. Io non mi sono fatto nulla, mentre lei è morta. Ero solo un bambino e nessuno mi ha mai accusato di nulla, però…

— …Perché è stato solo un attimo, lei non ha stretto per una buona mezz’ora il lenzuolo intorno al viso di sua madre, non l’ha soffocata con le sue stesse mani, non…

Maledizione, non ha funzionato, devo recuperare in fretta: i miei colleghi, richiamati dallo sparo, stanno arrivando e presto perderò il controllo dell’operazione. Non posso permetterlo. Non adesso che mi sento vicino a una soluzione.

— Era solo un gioco, un gioco che ha accettato di fare anche tua sorella: nessuno dei due era abbastanza grande per capire quanto fosse pericoloso…

— Ma adesso lo sono. Devo pagare per il male che ho fatto.

Il ragazzo tornerà in casa di cura e chissà quando e se ne uscirà: mi sembra una punizione sufficiente.

— Così non riporterai in vita tua sorella e causerai solo altro dolore ai tuoi.

— Non è vero: mi odiano per quello che ho fatto.

Infatti lo hanno allontanato perché non sopportavano la vista di chi aveva ucciso la loro figlioletta. Solo ultimamente gli hanno permesso di tornare a vivere con loro. Tutto sembrava a posto, poi alla televisione hanno dato un vecchio film in bianco e nero. Protagonista una mummia, così Carlo ha ricordato tutto.

— Ti sbagli, sono stati loro a dirmi dove trovarti. Non vedono l’ora che io ti riporti a casa.

No, hanno solo paura che con la pistola del padre Carlo uccida qualche altro innocente.

— Non le credo.

— Crederai almeno a loro, spero. Se vuoi, puoi chiamarli con il mio cellulare… puoi sempre spararti dopo averci parlato.

Finalmente il ragazzo esita e si mette a piangere: ormai sono sicuro che non si ucciderà più. Il resto sono le soliti frasi fatte, quelle dei polizieschi televisivi. È tutto finito, o quasi, abbiamo tempo solo per le battute finali.

Carlo, in lacrime, prende il cellulare, abbassa la pistola e me la passa. Gliela punto contro la tempia e sparo. La getto a terra, vicino al cadavere, infine mi levo i guanti e me li metto in tasca: nessuno penserà a perquisirmi. Il colpo di prima ha lasciato tracce di polvere da sparo sulla mano del ragazzo, perciò non ci saranno difficoltà a credere che si sia ucciso. La farò franca di nuovo.

Ai miei colleghi appena arrivati non devo spiegare nulla: si complimentano sempre per i miei successi, ma non mi fanno mai pesare i fallimenti. Che sono pochi, pochissimi: non voglio che sospettino qualcosa. Agisco solo d’estate, quando il caldo dà alla testa e aumenta la violenza, anche contro se stessi. E quest’anno fa sempre più caldo. Settembre sembra ancora tanto lontano: prevedo che sarò chiamato spesso prima che arrivi il fresco Sì, presto ci sarà un altro aspirante suicida e io sarò pronto a fermarlo. Se spedirlo in casa di cura o all’altro mondo ancora non lo so. D’altronde, mi baso da sempre sull’improvvisazione, sull’ispirazione del momento.