Robert Towne (premio Oscar per la sceneggiatura di Chinatown) amico di Fante, rimane fedele e devoto al testo tanto che pare di leggerlo per immagini. Sbroglia la trama impeccabile, senza sbavature e talvolta, morde struggente. Supportata dalla necessaria voce narrante fuori campo, inserita perfettamente nel teatro della Città degli Angeli durante la Depressione, arriva la trasposizione cinematografica dell’omonimo, bellissimo romanzo di John Fante. Scrittore squattrinato e innamorato della vita, come egli fu realmente ma senza quella vena disperata di Bukowsky, (ndr: che a sua volta si dichiarò più volte debitore degli scritti dello stesso Fante). Trasferì nell’alter ego Arturo Bandini (faccia-da-schiaffi Colin Farrell, troppo “cool” per essere vero) patimenti, cadute e rinascite quotidiane e la difficoltà nel conciliare sogni e reali opportunità. Svantaggiato dalle italiche origini in una nazione che vorrebbe tutti uguali senza essere capace di accogliere i propri figli (il)legittimi, tra sacro e profano, tra compagni di stanza falliti (Donald Sutherland con vestaglia e viso rattoppati), incontri folli e sogni a occhi aperti, dipana e spende la propria esistenza ma soprattutto, annega nell’amore appassionante per la curvilinea e spigolosa di carattere cameriera Camilla (Salma Hayek, uno splendore anche alla luce più impietosa).

Tutto vibra in nome del melodramma ma la stortura c’è: la perfezione. Facce talmente disegnate da far dimenticare ogni brutta piega di disperazione e sofferenza che l’ordito esigerebbe. Non ci si risparmia dunque in didascalia di pregio e nemmeno in patinatura. E non è un complimento.