Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Sempre in casa, seduto al tavolo con il notebook che salta dal testo al documento da esaminare. Nella stagione invernale preferisco scrivere in tarda serata e di notte, quando tutto tace. D’estate invece, trovo sia meglio alzarsi presto, prima del sorgere del sole. Vicino a me, ad aspettarmi pazientemente, c’è sempre lei, Ariel, una golden femmina che oramai ha compiuto 13 anni. Le mie sono tutte storie realmente accadute, omicidi del secolo scorso, dove le vittime sono sempre donne delle provincia di Belluno, o che hanno vissuto per un periodo della loro vita in questa provincia. Mentalmente, quando scrivo, sono lì nel luogo del delitto, nelle stanze, nelle strade quando è avvenuto il fatto. Come un testimone oculare, un viaggiatore del tempo che si muove tra le persone e i luoghi, così come sono riprodotti nelle fotografie d’epoca.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Diciamo che è il caso a scegliere vittime e assassini. Capita frequentemente di imbattersi in una storia di sangue mentre si sta cercando qualcos’altro. Ma identificato assassino e vittima, luogo e data del processo o dei procedimenti, non sempre le ricerche successive dei documenti processuali vanno a buon fine. Può capitare, come è successo per la “contessa” Marta Kusch, di dover inseguire il fascicolo processuale per 15 anni, finché arriva all’Archivio di Stato di Venezia e solo allora, dopo 70 anni dai fatti, diventa accessibile. Ma non sempre si riescono a localizzare le carte processuali e allora il materiale reperito dagli archivi dei giornali può non essere sufficiente a una ricostruzione completa della storia.

Qual è il tuo modus operandi?

Individuato il caso da trattare, ottenuta la conferma dell’esistenza del fascicolo processuale dall’Archivio di Stato di Venezia, passo alla fase prettamente operativa. Armato di smartphone e fotocamera procedo a fotografare tutto il contenuto del fascicolo. Generalmente si va dai 400/500 scatti, fino ai 600/700 fotogrammi nei fascicoli più voluminosi. Poi si tratta di ordinare cronologicamente il tutto, verificare se vi sono errori di trascrizione nei documenti. Nel delitto Cimetta, ad esempio, il caso della donna uccisa e affondata in un baule a Venezia, ne i verbali di trascrizione, poi replicati dai giornali, è capitato che l’amante dell’assassino, sia stata “invecchiata” di 10 anni, cosicché la donna si è ritrovata ad essere una ultrasettantenne, peraltro estranea all’omicidio. Circostanza che oggi può benissimo accadere, ma che alla fine degli anni ‘40 era quantomeno inconsueta e dunque ghiotta e di colore per la cronaca dell’epoca.

Chi sono i tuoi complici?

I miei complici generalmente sono degli sconosciuti, che avendo letto nei social le mie storie mi contattano. Sono testimoni indiretti, perché i fatti che tratto sono successi 70 o 90 anni fa. Ma in famiglia, genitori e nonni ne parlavano perché erano storie che avevano destato scalpore. Una signora, riguardo all’omicidio accaduto nel 1945 di Marta Kusch, mi disse che sua nonna ancor oggi aveva timore a parlarne. Un mio compagno di scuola, mi ha riferito che la suocera ha ripreso a leggere dopo anni che non lo faceva più saputo del libro I soldi della contessa. Ed è stato per me una delle più gratificanti soddisfazioni. Nel delitto di Busto Arsizio della povera ragazza di Cesiomaggiore, Silvia Da Pont, è stato il nipote della vittima a segnalarmi alcuni errori nei nomi riportati negli articoli di cronaca dell’epoca. Un mio amico, letto del caso di Linda Cimetta, mi dice che la testimone chiave citata nel processo, era una sua zia e mi racconta una serie di particolari. Analoga testimonianza con particolari inediti, ho raccolto da una discendente del colpevole sempre sul caso Cimetta.

Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!

Ho sempre avuto rapporti di ottima collaborazione. Mi spiego meglio. Gli atti processuali si fermano alla sentenza di condanna. Ma dopo cosa è successo al colpevole? Ecco che entrano in gioco le testimonianze dei lettori. Nell’ultimo libro appena pubblicato, l’omicidio di Emma Canton avvenuto nel 1933, avviene una singolare triangolazione di informazioni grazie a Facebook. Vengo contattato dal Brasile, infatti, da un signore che porta lo stesso cognome dell’assassino , il cui nonno era emigrato fin all’inizio del ‘900 e che stava completando l’albero genealogico della famiglia. Anche qui tramite amicizie e ricerche ricostruisco la vita del colpevole successiva alla carcerazione. Ma il caso più inquietante sotto il profilo processuale, per le pressioni esercitate, è probabilmente quello della Luzzatto. Si tratta della morte in circostanze misteriose della giovane professoressa Lea, avvenuto nel 1946 a Belluno. Un caso dove probabilmente ricorrerebbero tutti gli estremi per una riapertura del processo.

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

Il messaggio forte che voglio dare è quello del problema del femminicidio, che oggi come 90 anni fa affligge le società moderne, anche quelle ritenute civili. Nei miei libri le vittime sono sempre e solo donne indifese uccise da uomini. Per questo nell’ultimo libro ho chiesto la collaborazione dell’Associazione Belluno-Donna, che si occupa specificatamente del problema della violenza, fisica e psicologica, nei confronti della donna. Nella postfazione dell’Omicidio di Emma Canton c’è appunto l’intervento dell’Associazione che colgo l’occasione per ringraziare, insieme a quanti hanno con me collaborato nelle testimonianze raccolte. Oltre naturalmente alla preziosa documentazione che ho potuto consultare grazie all’Archivio di Stato di Venezia.