Onomichi, prefettura di Hiroshima, 2019. L’unico cinema della città sta per chiudere i battenti e, come saluto finale al pubblico, ci sarà una proiezione speciale: una selezione di spezzoni da famosi film di guerra per ripercorrere la storia del Giappone moderno dalla guerra civile Boshin (1868-1869) alla fine della guerra del Pacifico (1937-1945). Scopo primario dell’iniziativa, oltre che regalare la magia del cinema un’ultima volta agli abitanti, è quello di far riflettere le giovani generazioni sul ruolo negativo della guerra attraverso la conoscenza del proprio passato. Proprio perché interessata a conoscere la storia attraverso i film, la giovane Noriko (Yoshida Rei) accorre alla proiezione per poter finalmente capire se stessa e il proprio ruolo nel mondo; ugualmente curiosi del passato e attirati dal fascino irresistibile del cinema, sopraggiungono in sala anche tre giovani ragazzi  ̶  Mario (Atzuki Takuro), figlio del proiezionista; l’aspirante yakuza Shigeru (Hosoda Yoshikiko); l’intellettuale Hosuke (Hosoyamada Takahito) ̶ e, come sorta di guida spirituale dell’astronave-macchina del tempo cinematografica, il critico Fanta G. (Takahashi Yukihiro), a volte sostituito nella narrazione dalla figlia, la giornalista Namyo (Yuri Nakae). Si spengono le luci, inizia lo spettacolo: ben presto, Noriko, Mario, Shigeru e Hosuke (e via via anche gli altri giovani presenti in sala) si ritroveranno a essere parte integrante degli spezzoni mostrati sullo schermo, finendo dentro le singole scene descritte dal film prima come semplici comparse o intrusi accidentali nel bel mezzo di un conflitto armato, poi come veri e propri personaggi delle varie storie narrate, fino al momento in cui, con l’approssimarsi dello sgancio della bomba atomica a Hiroshima, Mario, Shigeru e Hosuke dovranno decidere come convincere una troupe teatrale in procinto di essere obliterata dalla storia ad andarsene dalla città. A puntellare le varie tappe storiche, presentate in ordine non diacronico, i versi di Chuya Nakahara, uno dei maggiori innovatori della poesia moderna giapponese, morto a soli trent’anni ma autore di più di 350 poesie ispirate a Rimbaud e al dadaismo.

Come una danza circolare, le sue parole commentano e illuminano le scene mostrate e la brutale insensatezza della guerra, a partire dalla poesia “The Brutal Age”, scritta in occasione dell’incidente di Mukden del 1931 che fu preludio all’invasione giapponese della Cina. Chuya scagliò il proprio grido isolato contro le “oscure nubi” della modernità che nessun altro seppe riconoscere come sintomo di barbarie, ma che finirono per segnare inesorabilmente il futuro del paese, accecato dal “circo” della guerra (come il poeta lo definì in un’altra poesia). A dare corpo e forza al turbinio di eventi e immagini che travolgono ripetutamente i giovani spettatori diventati attori, la volontà di “proteggere” il ricordo e la storia, simboleggiata dal nascente amore fra Mario e Noriko.

Considerato il testamento spirituale di Nobuhiko Obayashi (che appare in due camei, interpretando sia un anziano pianista che il regista John Ford), Labyrinth of Cinema è un vero e proprio caleidoscopio di immagini e una fiumana di citazioni cinematografiche miste a citazioni letterarie e spiegazioni storiche, in un continuo pastiche di stili e generi diversi e sovrapposizioni fra realtà e fantasia, utopia e distopia, amore e deflagrazione (o scintillio, pika in giapponese, suono e luce della bomba che uccide), anelando ad un happy ending che possa dire fine alla parola “guerra” una volta per tutte. Essendo dichiaratamente un viaggio nel tempo attraverso una carrellata di quadri visivi, letterari e storici, il labirinto di Obayashi rappresenta una festa strabordante di colori e parole che forse potrebbe scoraggiare per la sua durata (tre ore), ma che in realtà merita assolutamente di essere assorbita dagli occhi per coglierne il semplice (ma non semplicistico) messaggio anti-militarista nel cuore. Anche per chi (come me) non conosce gli originali a cui il regista ha deciso di rendere omaggio, il film riesce a rivelare la trasparente lama della bellezza insita nelle cose e nelle persone e che sa rendere l’arte immensa nel suo porsi non come semplice lente della realtà o come segno a lei speculare, ma come regno dell’altrove e del in-betweenness, terra di mezzo in bilico fra sogno, incubo e frammenti di intuizioni sul mondo a venire.

Al di là di alcune sequenze che potevano forse essere omesse per la loro poca chiarezza (che ruolo avrebbero i ringraziamenti iniziali e finali a Hinton Battle? Forse per riportarci alla magia del musical che apre e chiude l’evento speciale del cinema di Onomichi?) o volgarità (Shigeru che scappa dal leggendario samurai Miyamoto Musashi a suon di flatulenze), Labyrinth of Cinema ci spiega alcuni episodi fondamentali della storia nipponica, riconoscendo finalmente la responsabilità del Giappone e dei suoi leader politici e istituzionali nella discesa verso la violenza, anche se, stranamente, non vi è mai alcuna menzione diretta del dittatore Tojo e delle nefandezze compiute in suo nome durante la guerra del Pacifico, il che paradossalmente fa quasi rimpiangere che il film potesse durare ulteriormente spiegandoci ancor di più delle storture della guerra. Oltre al suo valore di testimonianza storica, Labyrinth of Cinema si lascia apprezzare anche per il modo ironico con cui sfata coraggiosamente ideali giapponesi (ad esempio “la conformità che vince sulla logica” o il patriottismo fanatico e accecante) e usanze idolatrate anche in occidente, quali l’uso della katana o la figura del samurai (da cui la sequenza sopra citata su Musashi acquisisce un suo senso, perché appunto ridicolizzata), ma anche pregiudizi sulle donne giapponesi, di solito ritratte unicamente come bambole passive e mai come agenti del proprio destino. Molto bella in tal senso la sequenza introdotta da Namyo sul ruolo del Joshitai (Armata delle donne e dei bambini) nel difendere il castello di Aizu durante l’attacco delle truppe imperiali nel corso della guerra civile Boshin: a fronte di una Noriko ossessivamente presentata con toni paternalistici come fragile eroina da “proteggere” (anche se poi il suo ruolo meta-cinematografico si rivelerà essere ben diverso), in questo frammento di storia giapponese vediamo emergere ritratti di donne guerriere come Nakano Takeko, maestra di spada naginata, mentre nella parte finale anche la misteriosa “bigliettaia” del cinema (Wakaba Irie) avrà anche lei un ruolo tutt’altro che secondario o insignificante. Senza dubbio uno dei gioielli della ventiduesima edizione del Far East Film, labirinto in cui ci si perde volentieri.