Torna M. Night Shyamalan con Split. Una claustrofobica regia sulla Sindrome da personalità Multipla. Sull’argomento esiste molta bibliografia, tra cui il testo dello psichiatra americano Richard Baer che nel suo "Switching Time" racconta la storia di un paziente in cura con ben diciasette alter ego coesistenti nella sua personalità divenuta "gruppo di personalità non interagenti" tra cui erano presenti "entità" come donne, uomini, bambini.

Il film negli Usa è andato piuttosto bene, scalando il box office. Shyamalan ha realizzato Split con meno di dieci milioni di dollari, autofinanziandolo per poter avere l’ultima parola su ogni dettaglio del girato.

Il successo può essere spiegato con la buona prova attoriale di James McAvoy e dalla bravura ancora acerba, e per questo senza troppe pretese interpretative, della giovane Anya Taylor Joy.

Il lavoro di M. Night Shyamalan è ispirato alla vicenda vera di tal Billy Milligan, che alla fine degli anni ‘70 fu tristemente celebre per aver violentato e rapinato delle ragazze, reato da cui era stato poi assolto per infermità mentale.

Il caso aveva destato grande eco perché l'uomo era affetto da sindrome da personalità multipla.

Un test probante per il talento visionario di M. Night Shyamalan, ma non distante dai suoi interessi. Quando Shyamalan frequentava ancora la facoltà alla New York University aveva seguito anche alcuni corsi di psicologia. Da allora, il tema della multipersonalità è diventata un'ossessione: un'idea "grandiosa", secondo il regista, perché "non c'era ancora un film definitivo sulla materia".

Purtroppo, Shyamalan continua ad avvitarsi su se stesso e, dopo il successo planetario de Il sesto senso e la confinata quotidianità dell'appena sufficiente The Village, non è più stato capace di evolversi e finisce col replicare il solito contenuto in una storia differente, tra spiegazioni psichiatriche al limite della scienza e, mostri, interiori ed esterni nel senso etimologico del termine.

Sorge così il legittimo dubbio che non sia in grado di fare qualcosa di diverso, opere dove la realtà vera trascenda il mistero e l’inspiegabile, dove la logica fornisca spiegazioni tangibili e concrete allo spettatore.

Il film parte abbastanza bene, il rapimento e l'assenza di empatia del protagonista all'interno della macchina sono un preludio d'impatto alle soffocanti sequenze che ci rivelano, dilatate nel tempo, le identità multiple di McAvoy. A questo proposito, l'identità del bambino di nove anni è alquanto imbarazzante.

Ma molto presto, tutto quanto scema e diventa indifferente allo spettatore. Si guarda lo schermo passivamente, senza partecipazione alcuna.

Buona la fotografia, scarne le musiche, tracce morbose che si incuneano negli stati d'animo di vittime e carnefice.

Non manca la citazione. Shining, nel contenuto replicato della mail alla psichiatra e nel finale, dove il volto tra le sbarre di McAvoy richiama immediatamente il sogghigno diabolico di Nicholson tra il legno spaccato della porta all'Overlook Hotel.

Forse, citazioni che sono un sospiro del regista, “Ah, se fossi Kubrick…” Ma non lo è, nemmeno gli si avvicina, può soltanto guardarlo da lontano o sperare in un miraggio. Il finale di Split è lì a testimoniarlo.

In conclusione, il film risulta monco, impersonale, quasi un paradosso, visto l'argomento, oppure una parodia non voluta, con un plot che sembra essere stato fatto per impressionare, ma senza alcun guizzo di genialità per ottenere il risultato sperato.

Un film colmo di difetti, che alla fine, annoia e tiene in bilico sopra l'apatia e un “chi me lo ha fatto fare?”

Da notare il cameo dell'ultima sequenza. Un'iniezione di autostima per il regista, poco convinto del risultato del suo Split, una soluzione incolore e inodore. Pochi cc di “Hey, sono sempre quello de Il sesto senso!”.

Un pregio invece da sottolineare, sta nel fatto che Shyamalan sia tra i pochi a resistere alla tendenza dei reboot, e continui a "portare sul grande schermo storie insolite". Come ebbe modo di dire lo stesso regista durante un incontro con la stampa a Milano, "Non ci sono molti paladini dei film originali a Hollywood, per me girare un sequel resta un compito sgradevole, perché la scrittura mi diverte solo se è una scoperta". Il difetto, che non è più riuscito ad essere originale con efficacia.