L'ultimo film di Iñárritu?

Maestosità e pochezza.

La maestosità

La fotografia di Emmanuel Lubezki è ancora una volta sublime, un virare al colore della celeberrima wilderness del fotografo Ansel Adams, in cui la natura è dio supremo e giudice delle sorti dell'uomo e affermazione del primordiale.

È come ammirare un quadro in movimento, dove l'essere umano è comparsa quasi immeritata, dove la sua razionalità si stinge e si perde nel più selvaggio istinto di sopravvivenza.

Anche le attrezzature durante le riprese hanno dovuto soccombere alle leggi incontrovertibili di quel paesaggio nord americano infinito e brutale.

Stiamo lavorando molto in esterno con la luce naturale e la Steadicam. Le lenti sono molto ampie e vicine agli attori (probabilmente si tratta di lenti grandangolari a focale fissa, ndr.). È estremamente viscerale. La temperatura è scesa fino a -30°, e abbiamo avuto delle difficoltà con le attrezzature. Ad un certo punto è diventato così freddo che i nostri schermi si sono bloccati”. (Ennanuel Lubezki)

Pochezza.

La storia è esile e fragile come le gole trafitte dalle frecce indiane. È citazionista, una vista e rivista storia di vendetta, qui consumata dopo un inverno di sopravvivenza in attesa di redenzione che la pretenziosità registica di Iñárritu priva di ogni tragicità e spessore trovando nello sterminato paesaggio il luogo più adatto a contenere in parte la sua ambizione autoriale.

I personaggi del film sono monodimensionali, piatti, incollati al paesaggio senza essere in grado di cogliere l'energia gotica che la natura emana.

La brutalità è solo nel vouyerismo di Iñárritu, nel suo compiaciuto esercizio di stile che stride con l'asprezza del luogo e il massacro delle carni.

Di Caprio si presta perfettamente a questa vetrina di vanità dove i dialoghi sono movimenti del corpo e espressioni di sofferenza nei primi piani e nei primissimi piani. La sua prova si uniforma alla regia e non è certo una interpretazione da Oscar…

Se ciò accadesse, il Calvin Candie di Django Unchained si rivolterebbe nella tomba.

Hardy, al contrario, poco convincente nell'aspetto, riesce a ritagliare una piccola storia dal suo personaggio. In pochi dialoghi tenta di conferire un contatto con lo spettatore.

Alla termine delle due ore e mezza il film resta una splendida fotografia che accontenta gli occhi senza che questi ultimi sentano la necessità di ricercare emozioni più profonde all'interno di essa.

Niente di memorabile, tutto abbastanza dimenticabile.