Primo capitolo del romanzo che, riveduto e corretto dall’autore, apre la terza antologia dedicata a Chance Renard: Il Professionista Story 3, numero speciale di Segretissimo in edicola da gennaio 2013.

1

Tokyo

Fasci di luci laser gettavano sfumature itteriche sul samurai olografico sospeso nell’aria sopra la pista da ballo. Accompagnato dal cacofonico miscuglio di musica elettronica, rock giapponese e techno music digitalizzata, il guerriero sciabolava nel vuoto, fendendo le cortine di fumo con una katana iridescente. Il viso coperto da una maschera demoniaca era atteggiato a una smorfia di perenne disprezzo, come se stesse combattendo un’ultima, inutile battaglia contro la galoppante avanzata del progresso.

Kaishaku. Nel rito samurai del seppuku, il suicidio, il kaishakunin gioca il ruolo del supremo compagno della vittima. Esecutore e amico, è l’uomo incaricato di compiere il kaishaku, ossia di vibrare l’ultimo colpo di spada recidendo il capo del suicida quando il dolore si fa troppo atroce per essere sopportato con dignità. Nell’attimo in cui il samurai si lacera le interiora il kaishakunin alza la spada pronto a sferrare il suo fendente non appena intuisce che il compagno non è più in grado di trattenere le urla. È, nella tradizione nipponica, la figura più amata e venerata dell’intera iconografia del suicidio.

Kaishaku. Il più famoso locale di Shinjuku, un cuore pulsante di musica e adrenalina nel quartiere dei divertimenti di Tokyo. Al di là del samurai proiettato nel vuoto sopra la pista, il Kaishaku non aveva nulla di tradizionale o anche di lontanamente riconducibile al codice cavalleresco del Bushido. Costruito nei sotterranei di un palazzo di cinquanta piani, si presentava come un gigantesco cilindro dotato di sei piattaforme unite da un lungo scivolo a spirale che scendeva sino alla pista principale come un serpente. Al piano inferiore, al centro della sala, il nucleo nevralgico del locale, protetto da una cupola di plexiglas, ospitava quattro deejay che contemporaneamente mixavano gli ultimi successi rock americani, le musiche di Ryuichi Sakamoto e una quasi incomprensibile sinfonia di suoni e ritmi studiati appositamente per stordire la clientela.

Ritmo. Ossessivo, martellante, continuo, copriva la melodia, le risate sguaiate, perfino il chiacchiericcio delle ragazze kampai che affollavano le piattaforme spostandosi da una fila all’altra su pattini a rotelle. Sulla pista una marea scomposta di corpi si muoveva seguendo una specie di rito pagano dal quale, una volta entrati, era impossibile uscire. Sudore, profumo di pessima qualità, occhi spiritati, corpi scolpiti da ore di palestra e dall’uso esasperato di steroidi.

La fauna che si aggirava tra le piste da ballo ai vari livelli e la zona circostante al bancone circolare del bar mescolava punk dalle pettinature variopinte, gruppi di neo dark tatuati e coperti di pelle borchiata, yuppie in doppiopetto, ragazze con i seni siliconati e le pieghe epicantiche corrette dalla chirurgia plastica, e perfino travestiti in kimono tradizionale, raccolti vicino all’ingresso degli ascensori cilindrici che scorrevano lungo le corsie verticali collegando l’entrata del locale, direttamente sulla strada, alla pista da ballo.

Mimy Oshima fece il suo ingresso al piano inferiore emergendo dalla cabina di uno degli ascensori con una tenuta perfetta per confondersi con la folla baluginante del Kaishaku. Era alta per essere giapponese, forse merito delle ascendenze coreane che i suoi colleghi trovavano così poco raffinate. Le lunghe cosce, scolpite da ore di body building e dalla regolare pratica del tae kwon do, erano fasciate da fuseaux di spandex giallo con ampi spacchi irregolari che correvano come serpenti dagli scarponcini anfibi alla parte superiore dei quadricipiti. Il busto scompariva nella giacca di Issey Myake di pelle viola, con le spalle imbottite come quelle di un giocatore di football. Un indumento tattico appositamente indossato sul top argentato per nascondere il prezioso equipaggiamento che Mimy aveva portato con sé. Ma, a dispetto del fisico statuario, Mimy Oshima si faceva notare soprattutto per i tratti del viso. Zigomi alti, mascella fine eppure volitiva, naso piccolo ma non schiacciato come quello della maggior parte delle sue conterranee, occhi scuri incorniciati da ciglia finte. La lunga capigliatura, così nera da tingersi di riflessi bluastri, scendeva sulle spalle appena increspata dalla permanente.