Definireste “horror” un film di fantascienza come Il pianeta proibito? Non credo, nonostante l’horror e la fantascienza siano stretti parenti. E allora perché qualsiasi indagine poliziesca (letteraria, cinematografica o televisiva) in Italia, e solo in Italia, viene immancabilmente definita “noir”?

Non è questione di essere pedanti, attaccati alle definizioni, ai semplici dettagli. Il fatto è che questo “dettaglio” rivela, secondo me, una vera impasse dell’approccio ai generi in Italia.

C’è una profonda differenza, infatti, tra giallo e noir. I personaggi e i temi del giallo e del noir sono molto diversi tra loro: solo per citare due esempi, nel noir il protagonista non è un “eroe” o un rappresentante dello stato, ma un uomo comune catapultato in una situazione drammatica, spesso è un deviante o un delinquente; e nel noir non c’è lieto fine, non c’è il ristabilimento dell’ordine e della legge. Tutte caratteristiche che, fuori dai nostri confini, sono ben note e studiate.

Eppure i giornali e le tv in Italia continuano ad applicare il termine noir a quelli che una volta chiamavamo semplicemente gialli o polizieschi. Ho l’impressione che il vecchio pregiudizio italiano verso i generi riemerga proprio quando si usa a sproposito l’etichetta noir, quasi per dare una sorta di dignità chic a prodotti che fino a poco tempo fa non si ritenevano degni di attenzione.

E così accade che gli autori italiani che ormai vengono definiti noir sono sostanzialmente dei “giallisti”, molto meno trasgressivi dei “noiristi”, e che ripropongono il vecchio modello dell’investigazione: un poliziotto, o chi per lui indaga su uno o più delitti, si confronta con indizi e sospetti, infine scopre il criminale e lo consegna alla giustizia (o lo elimina direttamente). È un modello antico, addirittura obsoleto, a sfondo enigmistico (il lettore condivide con l’investigatore il quiz per scoprire l’assassino), riscritto con qualche modernizzazione all’americana, cioè inserendo un bel po’ di sangue, qualche descrizione macabra (cadaveri e autopsie riempiono pagine e pagine), un tocco di erotismo morboso, secondo la consuetudine dei thriller d’oltreoceano a largo consumo. Dov’è il noir?

Nelle mie perorazioni per non abusare del termine noir e per evidenziare la possibile deriva “moderata” del genere mi sono trovato confortato dalle parole di un grande giallista (quindi della scuola dedita all’indagine poliziesca e non al noir), lo scrittore Loriano Macchiavelli, in un’intervista a “l’Unità” del 23 gennaio 2005. Per Macchiavelli si assiste in Italia all’inaridimento della capacità di rottura del poliziesco, testimoniato dal fatto che “attualmente non dà più noia a nessuno”. E Macchiavelli esprime una speranza: “Vorrei che il genere tornasse a essere una letteratura di rottura. Popolare, certo, ma di rottura,”

Da parte mia, credo che il malvezzo di etichettare come noir qualsiasi giallo sia un sintomo del tentativo di “normalizzazione” dei due generi. E invece servirebbero innovazione e rottura non solo nelle storie, ma anche nei linguaggi. Spesso, invece, quando si apre un giallo (o sedicente noir) italiano sembra di leggere un poliziesco americano di consumo, uno dei migliaia di titoli d’oltreoceano quasi sempre tradotti solertemente anche da noi.

Con uno stile piano e banale si assiste al solito enigma cui dare soluzione, la solita cattura del criminale e il ristabilimento dell’ordine. E soprattutto c’è l’ostinazione nel proporre un “detective”, magari non un poliziotto, ma un investigatore autodidatta o improvvisato, un giornalista, un giudice, oppure un personaggio famoso del passato come avviene nei fortunati gialli storici.

Ecco perché non mi piace l’uso improprio del termine noir. Non per affetto scolastico a un genere (del resto, io preferisco il neonoir, proprio perché tenta di superare anche il noir tradizionale), ma perché vi vedo un malcostume italiano e il retaggio di vecchi pregiudizi culturali. Oltre al tentativo, forse inconscio, di cancellare le asprezze ribelli e l’anticonformismo crudele del vero noir.