Primo capitolo del romanzo Fitte nebbie. La prima indagine di Sambuco & Dell’Oro di Alessandro Reali, per gentile concessione di Fratelli Frilli Editori (ISBN 978-88-7563-747-7).

In memoria di Stefano...

A Perry Max e French

perché c'erano

quando tutto è cominciato

UNO

Felice Gatti, detto Felicino, era un tipo alto, massiccio, con un salvagente di grasso intorno alla vita; portava gli occhiali, rettangolari, di metallo, calati sul naso, e sembrava sempre sul punto di scoprire qualcosa di importante, come se, da un momento all’altro, la sua vita potesse prendere una piega diversa: ma era così da trent’anni...

Grande e grosso com’era chissà perché lo chiamavano Felicino; e dire che anche da bambino, tra i suoi coetanei, era il più alto e il più rotondo, con quella forma da damigiana, curiosa, che comprometteva in partenza le velleità sportive tipiche dell’età che, comunque, non lo condizionavano.

Poi, ai tempi del liceo a Pavia, verso la fine degli anni Sessanta, era diventato più o meno famoso con il soprannome di Genio, non tanto perché ottenesse straordinari risultati scolastici, ma per via dei suoi modi sbadati, sopra le righe, e delle sentenze che emetteva per conto suo, indifferente al fatto che ci fosse o no qualcuno ad ascoltarlo... in classe o al bar, coi pantaloni che finivano sotto le scarpe, la giacca stropicciata e la cravatta slacciata (adesso, passati trent’anni, il suo aspetto fisico e il suo stile nel vestire erano notevolmente peggiorati) e tre o quattro giornali sotto il braccio, spiegazzati, letti e riletti, come cibo indispensabile alla sua mente onnivora, catalogante, appassionata, indifferente alle ideologie (allora nettare indispensabile per ogni coscienza) ma tesa a scoprire le verità nascoste, a leggere tra le righe e inseguire trame che l’assorbivano completamente, allontanandolo dagli altri compagni, che ogni mattina lo vedevano arrivare a bordo della Jaguar verde scuro, splendidamente inglese, di suo padre, pur ricevendo, costante, la loro attenzione: cocktail d’ironia e ammirazione.

Comunque, in quel mattino di ottobre del novantadue, Felice Gatti, detto Felicino, se ne stava immobile sotto l’arco d’ingresso della Lupa, la cascina di cui era ancora proprietario: un gioiello diroccato di Lomellina, circondato da pioppi e campi di meliga e riso che un tempo appartenevano a suo padre.

Faceva freddo e il cielo era azzurro, senza una nuvola. Una coppia di gazze muoveva la testolina di velluto, appollaiata sulla quercia, a pochi passi da lui; quattro o cinque cornacchie, dalle ali color cenere, si dividevano tranquillamente il corpo straziato di un porcospino, al centro del viottolo polveroso che portava, ferendo la strada stretta, tortuosa ma asfaltata, verso l’antico borgo di Valeggio.

Felice prese dal taschino della giacca una sigaretta, l’accese e fece un paio di lunghi tiri, guardandosi intorno; aveva il fiato corto, la barba lunga, la giacca di velluto beige chiazzata di vino rosso e i postumi della sbornia della sera prima. Aveva la testa piena di vespe ronzanti e il cuore stretto in una morsa di dubbi... non riguardo alle sue risorse economiche, che stavano esaurendosi, o alla sua donna, che gli aveva dato l’ennesimo ultimatum, ma per via di quelli che si ostinava a chiamare i misteri d’Italia, ai quali lui, Felicino Gatti, aveva dedicato tutta la vita, raccogliendo e catalogando articoli fino a formare un archivio mastodontico (l’unico segmento ordinato della sua esistenza) e che ancora lo avvelenavano come una malattia indispensabile, alla quale aveva sacrificato l’intero patrimonio di suo padre.

Intorno a lui i campi di riso e le melighe. Il giallo e il bruno della campagna, l’odore della terra, l’umidità azzurrina che saliva dai fossi e, lontano, gli spari dei cacciatori.

I ricordi: certe nebbiose domeniche pomeriggio di molti anni prima, dorate, nelle ore più calde, da un sole pallido, che presto sarebbe rimasto sepolto dalla coltre grigia della sera. Suo padre e i suoi amici ritornavano con i carnieri colmi di beccacce, fagiani e lepri; intorno, i setter e i bracchi con la lingua penzoloni, l’odore delle piume, del pelo e del sangue, l’aroma dei sigari Toscani e delle sigarette, gli sguardi soddisfatti di chi riesce a fermare il tempo e guardare la propria vita realizzata, senza smarrimento, senza paura, con quella concretezza priva di scrupoli che Felicino non aveva mai compreso.