— Lei mi sembra un tipo sveglio, Dottor Badalamenti.

— Può darsi, ma non oggi.

Non era certo un gran dialogo, ma in quelle condizioni non mi sentivo in grado di fare meglio. Lei mi invitò a seguirla nel suo boudoir ancheggiandomi davanti come Mata Hari durante la guerra fredda. Mentre la seguivo continuavo a ripetere dentro di me salutari mantra tibetani, nel caso mi fosse venuto in mente di cedere a qualche meno salutare tentazione. Dopotutto suo padre non mi pagava certo per fare lo svenevole con le sue ragazze.

Lei mi raccontò in due parole la sua versione dei fatti, o meglio, quello che secondo lei avrei dovuto scoprire. Peccato che io detesti farmi spiegare prima quello che, a rigor di logica, dovrebbe ancora succedere. Quando capì che il giochetto della domatrice di leoni con me non funzionava mi lanciò uno sguardo che diceva, più o meno: “tu finirai morto ammazzato a forza di cercare fortuna e gloria”.

Le risposi con cordiale urbanità che avrei trovato da solo la porta per uscire, mentre mentalmente sillabavo: “può darsi tesoro, può darsi, ma non oggi”.

La porta di casa, o meglio il portone, era alto quanto il Duomo, e sotto ci sarebbe potuto passare agevolmente un branco di elefanti, alle mie spalle lasciai un cavaliere crociato che sulla vetrata del salone era tutto intento a salvare una bella donzella dagli artigli di un drago che sputava fiamme come un carro di carnevale. Ho sempre pensato che non ci mettesse troppa convinzione in quel lavoro di salvataggio ma, d’altra parte, solo l’uomo forte può permettersi di essere buono e gentile, mentre il debole è colui che non è sicuro di sé, non fa che vantarsi e lasciarsi andare alle spacconate. È una legge di natura che dentro a quella casa sembrava particolarmente ben applicata.

Il caso era di quelli che non si dimenticano, l’ho già detto. La figliola maggiore, che Dio la benedica, scoprii subito che vinceva cifre strepitose al casinò di Monferrato, per poi farsele rapinare nel parcheggio sotterraneo senza battere ciglio e senza proferir parola, come se fosse una routine ormai consolidata. Che ci fosse sotto qualcosa sarebbe parso lampante anche a un cieco cerebroleso colpito da Alzheimer fulminante. Tanto, quelli che si lasciava portar via erano i soldi di Papà, ma tanta acquiescenza ben si prestava al ricatto di cui il generale mi aveva accennato. Ma ricatto per cosa? Al giorno d’oggi foto sconvenienti e uso di sostanze stupefacenti non conquistano nemmeno le pagine interne di un rotocalco settimanale femminile. Niente che basti a giustificare un ricatto. Cosa potevano aver combinato mai quelle due fanciulle per giustificare una simile estorsione su scala continua? Forse cominciavo a capire perché quel cavaliere crociato, immobile sulla vetrata da un paio di secoli, non metteva così tanto impegno nel suo salvataggio, forse, dopotutto, quello da compatire non era tanto il cavaliere, quanto il drago.

La storia poi è finita su tutti i giornali, quindi la conoscete tutti, ne ha parlato anche Quarto Grado in trasmissione, pare che il genero scomparso, quel ragazzone di buona famiglia non troppo altolocata che deliziava il generale con interminabili duelli a scacchi nella sua serra ultrariscaldata, fosse finito cementato sotto la fontana del giardino, ucciso nel tentativo, glorioso quanto inefficace, di strappare le due sorelle a un girone infernale di dipendenza da vizi più o meno occulti. La verità finì di uccidere il povero vecchio sempre più contorto sulla sua sedia a rotelle, anche se in fondo era quello che mi aveva chiesto, a un prezzo forse troppo alto, magari, ma tanto gli dovevo.

Di una cosa però nessuno si era occupato, chi aveva ucciso l’autista del generale? Una specie di guardia del corpo, alto due metri e una spanna, sottoposto a un addestramento speciale e abituato a lavorare con i reparti dell’Intelligence non si sarebbe fatto sorprendere tanto facilmente, mi veniva da pensare. Eppure lo avevano fatto fuori come un agnello sacrificale. Più ci pensavo e più continuava a tornarmi in mente il fare da domatrice della maggiore tra le due sorelle, quella abituata ad ammaestrare tutti gli uomini che entravano nella sua sfera d’azione come fenomeni da baraccone. Eppure nel nostro primo colloquio avevo tentato di spiegarglielo: assumere un investigatore privato non è la stessa cosa che assumere un uomo della pulizie, mostrargli otto finestre e dirgli: “lavale e tanti saluti”. Ma lei aveva preferito far finta di non capire. In quella medesima occasione le avevo anche detto: “il cliente ha sempre tutti i diritti, a meno che non si riveli un furfante. Ma, anche in questo caso, tutto quel che posso fare è rinunciare al mio incarico e tenere la bocca chiusa”. Aveva sorriso, compiaciuta, credendo che parlassi di lei.