La Vergine delle ossa è un romanzo corposo: 433 pagine che fondono la fantasia con una storia vera, un’architettura ben delineata e un impianto storico ottocentesco estremamente affidabile, sia che si parli di vita quotidiana che, ad esempio, di medicina. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo, momento documentativo incluso?

Anni, tantissimi anni: è stato un lavoro che parte da quando ero bambino. Mio papà era il direttore del museo di antropologia. Io giocavo tra cervelli in formalina, mummie, scheletri. Tra tanti stupendi orrori c’era “il mondo nuovo”, una stupefacente scultura di ossicine minuscole, intagliate a forma di figurine umane e di animali, prigioniere di una contorta palizzata di aghi d’osso che sembrava una foresta di lance, che le teneva prigioniere di questa specie di mondo tridimensionale a forma di parallelepipedo. Impossibile descrivere a parole la forza evocativa dei quest’opera. Posso solo dire che un po’ mi ricorda le atmosfere del film “The Cube”, dove una manciata di persone si trovano imprigionate in una costruzione fatta di cubi che si spostano in continuazione, e ogni cubo nasconde una trappola mortale.

Nel film i personaggi sono prigionieri dell’incubo di un pazzo. Proprio come le figurine scolpite del Mondo Nuovo, che sono insieme prigioniere e testimonianza della sofferenza psichica del grande artista che li ha scolpiti. Si chiamava Francesco Toris, un carabiniere che entrò quasi per errore nel manicomio di Collegno sul finire dell’800 e non ne uscì mai più.

Non volevo raccontare la storia di Toris, ma volevo raccontare le fantasie che a me bambino suscitava la sua scultura: quindi il personaggio che nel romanzo scolpisce con le ossa non ha nome, viene semplicemente identificato con le iniziali U.G., come si usava nei manicomi ottocenteschi, e nulla ha a che vedere con Francesco Toris (T.F., negli annali dell’ospedale psichiatrico).

Il problema è che la scultura, che nel romanzo prende il nome di “Sentiero della Vergine”, di storie me ne aveva ispirate tantissime, e quindi è stato difficilissimo scegliere la migliore da raccontare e abbandonare le altre… Addirittura, il primo canovaccio era una storia di fantascienza, su due piani temporali diversi: nel manicomio ottocentesco la scultura era una specie di antenna che riceveva il grido di aiuto di una prostituta di un futuro remoto. Un futuro dove il mondo era in agonia per via di un incidente genetico che aveva trasformato il mais in una distesa di piante mutanti pericolosissime. Il mondo era un oceano di granturco, percorso da immani e lentissime trebbiatrici grandi come petroliere, che arrancavano nella pianura Padana (ultimo avamposto abitato dagli uomini) per collegare tra loro le città-isole che resistevano all’assalto delle piante mutanti. C’era naturalmente un motivo molto chiaro per cui la donna, Marianna, cercava di contattare Lombroso e Salgari nell’800, ma qua’è questo motivo non lo dico, visto che – e qui faccio una promessa – se riesco a ritrovare i files di quella prima stesura, ne farei molto volentieri un ebook speciale, solo per Delos Editore. Solo ebook, attenzione, niente carta. Ma devo ritrovare i file però.

Chiariamo subito che la stesura definitiva della Vergine delle Ossa non è per nulla fantascientifico, è un puro thriller psicologico con qualche venatura horror.

Come ti sei documentato?

I miei personaggi principali, Lombroso e Salgari, scrivevano come matti, raccontavano tantissimo di sé e del loro mondo. Anzi, più o meno tutto quello che scrivevano parlava di loro, si trattasse delle avventure di Sandokan o di come scoprire se un uomo è delinquente, (o una donna una prostituta) misurandogli il cranio. Erano vanesi tutt’e due, quindi documentarsi è stato facilissimo: è bastato ascoltarli. Il problema era piuttosto farli sta zitti per scrivere in apce, senza che continuassero a battibeccare nel mio teschio.

I due personaggi principali che indagano attorno al mistero, ovvero Cesare Lombroso ed Emilio Salgari, rappresentano le due semisfere complementari di un tondo che ha come epicentro la follia: Lombroso coi suoi tentativi di controllarla e analizzarla attraverso la scienza, Salgari con l’imprevedibilità e l’abbandono alla pazzia (e alla fantasia). Anche se la forma più affascinante di follia, perché più dolorosa, è quella di U.G., lo scultore di ossa. Cosa ti ha affascinato di ciascuno di essi?

U.G. non teme la pazzia come la teme Lombroso, che la tiene a distanza studiandola, e nemmeno ci gioca (pericolosamente) come fa Salgari, che si identifica coi personaggi della sua fantasia. Salgari amava il proprio mondo onirico, era disposto a morire per proteggere le sue fantasie; arrivò a sfidare a duello, rischiando seriamente la pelle, un giornalista che aveva osato mettere in dubbio che lui fosse capitano di mare, cosa che in effetti non era.

Il rapporto con la follia di U.G. è profondamente diverso. Non distaccato come Lombroso, non giocoso come Salgari. U.G. ama la pazzia. Lui la insegue, la vuole, la desidera. Perché sa di non avere scelta: o impazzire, o fare i conti con un passato talmente doloroso da non essere sopportabile. Per lui la pazzia non è semplicemente un rifugio. È casa, l’unica casa dove vuole vivere. Il manicomio così diventa la sua casa, la sua famiglia. -Qui l’ho incontrata per la prima volta- dice a un certo punto a Salgari. -Chi, la tua fidanzata? Non c’è che dire, un bel posticino romantico- risponde lo scrittore.

U.G. chiuse gli occhi. –La Madonna- sussurrò. –Qui mi è apparsa la prima volta… E ora più che mai ho bisogno di Lei, Lei verrà. Ne sono certo. Verrà e mi donerà la pazzia-.

 

In realtà il vero detentore dello scettro della follia è U.G., altro protagonista del romanzo, dedito a una scultura di ossa che sta prendendo forma lentamente e che racchiude un mistero. Senza svelarci troppo e toglierci il gusto di scoprirlo, cosa rappresenta metaforicamente questa scultura ossea?

Lombroso a un certo punto crede di aver scoperto il mistero della scultura: “È un delirio religioso con la Madonna protagonista a scatenare le passioni criminali di U.G.; sarebbe lei a ordinargli di compiere gli orrendi delitti di cui si è macchiato, e costruire il suo osceno altare d’ossa, quel Sentiero della Vergine che è al contempo mappa della sua follia e mostruosa raccolta dei suoi macabri trofei” dice. Ma la realtà è molto più complessa. Il Sentiero della Vergine è una palizzata, che al centro ha un osso diverso da tutti gli altri. L’osso di una giovane prostituta assassinata, sul quale è scolpito il racconto di un parto finito in tragedia. L’intero mondo d’ossa protegge dagli sguardi e dalle mani degli uomini quel frammento, una storia talmente dolorosa che U.G. ha voluto dimenticarla per sempre. Ma per dimenticarla ha bisogno di impazzire.

Sobbalzò e alzò lo sguardo.

Sul tronco stava seduta la Vergine.

Gli sorrideva materna, con le labbra rosse non più sfregiate dal bavaglio di ferro che nelle apparizioni precedenti era imbullonato alla carne.

-Siediti accanto a me- gli disse. La sua voce era dolce, ma profondamente triste.

-Devo raccogliere i frammenti- rispose il carabiniere in tono di scusa.

La Vergine abbassò i suoi occhi indagatori per incontrare i suoi.

-Non sono più importanti. Adesso finalmente ricordi-.

U.G. annuì. –Tu non sei la Madonna, vero? Tu sei la Pazzia!-.

La donna si inginocchiò nella polvere accanto a lui. Così il suo viso era alla stessa altezza del suo. Senza dire niente, gli prese la testa tra le mani e lo baciò a lungo.

Quando si staccò, lo guardò negli occhi. –Io sono la ragazza che nessuno bacia volentieri. Eppure tu mi hai desiderato, invocato, inseguito fino qui-. Fece un gesto con le dita, e magicamente in mano le apparve il frammento d’osso che U.G. stava cercando per terra.

-È per questo bambino che mi hai cercato, vero?-.

Cosa direbbe Cesare Lombroso se leggesse il libro?

Direbbe: “Questo Masali sicuramente è privo del benché minimo talento letterario. Purtuttavia, nella sua primitiva mente ottenebrata dal vizio e dalla mediocrità, vivono vividissime immagini di uno scienziato di grandissimo valore, intelligenza e acume.

Dal suo scritto scialbo e illetterato emerge con potenza il personaggio di un uomo di genio alle prese con il caso clinico di uno scrittore da strapazzo, tal Salgari Emilio, in cui probabilmente il Masali trasfigura sé stesso. Ma a colpirci è l’immagine dello Scienziato con la S maiuscola, unico solo e vero protagonista del libello. E ciò non in virtù di fantasia, della quale il Masali appare completamente privo, come è privo di qualsiasi altra funzione cerebrale superiore, quanto piuttosto per l'affiorare della potente immagine del Lombroso storico nei ricordi atavici del Masali, ricordi istintivi tanto comuni nei degenerati quanto rari, o meglio assenti, nell'uomo normale”.

Ed Emilio Salgari?

Direbbe: “Invero, un libro poco interessante. Fatto salvo per l’unico protagonista, l’eroe del libro, lo Scrittore e Capitano di Mare Salgari Emilio, caduto per sua disgrazia nelle grinfie del terribile scienziato Lombroso Cesare. Che tortura i pazzi e apre loro il cranio per rovistare con dita d’acciaio nel loro cervello alla ricerca della pietra della follia. Ma colpirci è solo l’immagine dello Scrittore con la S maiuscola, unico solo e vero protagonista del libello. È lui che tiene insieme la storia, un libello miserabile in cui non succede praticamente nulla: non c’è nemmeno un’abbordaggio, non si vede l’ombra di un pirata o di un Maraja, nemmeno un adoratore di Kali o un maharatto incantatore di serpenti. E pure la fanciulla in pericolo, più che una vergine fiera e guerriera, pare un’infelice puttana”.

E tu cosa diresti loro?

Direi loro che hanno perfettamente ragione: sono proprio lo Scienziato e lo Scrittore a rendere il libro così speciale. (Oltre al Matto e alla Puttana, ovviamente. Ma questo lo penso e non lo dico, sennò diventano gelosi).

Le tue opere sono tradotte in francese e spagnolo. Hai notato delle differenze tra i lettori esteri e quelli italiani?

I lettori sono una specie rara e in via d’estinzione, direi che sono molto più le cose che li accomunano che non quelle che li dividono. E quella che li accomuna è soprattutto la voglia di lasciarsi meravigliare.

 

Com’è l’ambiente intellettuale italiano?

Una metafora del nostro paese: provinciale, chiuso e spezzettato in una miriade di micro borghi e micro circoli autoreferenziali. Situazioni per lo più asfittiche, incapaci di guardare al di là del loro naso, spesso perso in riti vuoti come organizzare l’Incontro con lo Scrittore dove c’è più gente al tavolo degli speaker che tra il pubblico. Più che altro, mette in corpo una gran tristezza.

 

Progetti?

Vorrei finire il seguito dell’Inglesina in Soffitta. Avevamo lasciato i protagonisti del primo libro, i ragazzini Raffaele e Poldo oltre al vecchio mastro d’ascia Marchion, sul lago di Como alla vigilia dello scoppio della guerra. Li ritroviamo qualche anno dopo, subito dopo la fucilazione di Mussolini. Hanno seguito strade diverse: il Poldo, che era un balilla, è diventato repubblichino. Il Raffa è passato coi partigiani. Il Marchion è invecchiato, è stanco e sfiduciato, disgustato dalla moglie che ha fato i soldi col mercato nero. Ma ancora una volta sarà lui a rimettere insieme, per una nuova avventura, il comunista Raffa e il fascistissimo Poldo. Un viaggio che sarà per i ragazzi l’addio all’adolescenza in un Italia tutta da ricostruire. Li aspetta un compito pericolosissimo, dovranno scombinare l’estremo tentativo di Goering di salvarsi la pelle, inviando sul lago di Como una affascinante spia sulle tracce di un segreto sconvolgente che potrebbe far di nuovo saltare i fragili equilibri mondiali.

 

Ci saluti con una citazione?

“Quella sera, davanti al plotone d’esecuzione, il Poldo era contento di essere un coglione”.

Così comincerà il seguito dell’Inglesina in Soffitta.