Cupo fin quasi all’angoscia questo biopic il cui titolo cita il soprannome, The Iron Lady appunto, che in epoca pre-muro la nomenclatura russa diede all’allora capo del governo britannico, vale a dire Margaret Thatcher.

Amata, molto odiata, ringraziata (si fa per dire, vedi Grazie, signora Thatcher del ’96), forse mai capita sino in fondo come succede puntualmente tutte le volte che molto potere rimane molto a lungo confinato in un unico individuo.

A dirigere il tutto Phyllida Lloyd, a scrivere Abi Morgan (Shame), ad interpretare in modo maiuscolo Meryl Streep (con questa fanno 17 candidature...), sbalorditiva come al solito, capace di reinventare e reinventarsi ogni volta, aiutata certo dal make-up ma superlativa nel restituire le movenze di una ottantenne in condizioni di salute precarie, quel misto di lentezza e fragilità che appartiene agli anziani e a chi sa imitarli alla perfezione.

Il risultato, come accennato, è un ritratto cupo e angoscioso della “dama di ferro”, ma non sul piano politico, che resta semi inerte sullo sfondo (filmati di repertorio su scontri tra dimostranti e polizia, la ricostruzione di un’infuocata seduta parlamentare, la guerra delle Falkland), quanto su quello personale che strettamente agganciato com’è alla malattia, il morbo di Alzheimer che attualmente affligge la vera Thatcher, inscrive il personaggio all’interno di una continua lotta tra presente e passato, realtà ed allucinazioni (queste ultime sotto forma della costante presenza del defunto marito).

Il film si muove così a scatti, senza una direzione precisa, lasciando lentamente emergere senza forzature eccessive quella che pare essere l’ultima e definitiva verità, quella che fa della Thatcher una donna che nel bene e nel male (ognuno decida quanto assegnare a ciascuna delle parti…) pare aver sempre saputo cosa volere dalla vita.