Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente.

Forse vale la pena di puntualizzare che non scrivo narrativa e neppure disegno (anzi, essendo disgrafico, quando scrivo rapidamente a mano risulto pressoché illeggibile). Scrivevo e disegnavo molto durante l’infanzia e pure da ragazzino. Ci ho messo poco però a capire che i miei disegni erano, nel migliore dei casi, copie squallide e malriuscite di quanto realizzato da altri. Per la narrativa ci ho impiegato più tempo: al ginnasio ho fondato assieme a un gruppo di amici una fanzine intitolata “Storie Arcane”, che voleva fin dal titolo omaggiare “Weird Tales”, ed è durata sino al termine delle superiori. Fortunatamente, almeno parlando per me, gli autori si nascondevano dietro l’anonimato o dietro pseudonimi. Ciò che vi pubblicavo era, quando andava bene, un collage raffazzonato di temi e stilemi della tradizione gotica e fantastica (usare l’aggettivo “postmoderno” mi sembrerebbe uno spreco e, soprattutto, un tantino autoassolutorio) e, quando andava male, era plagio a tutti gli effetti (commesso tuttavia in buona fede, più che altro come atto di ingenua devozione: una sorta di ‘rievocazione’ dei modelli scopiazzati). C’è stato, nonostante le mie ritrosie, un nuovo tentativo nel 2009 (o nel 2010, non ricordo più con esattezza) quando mi fu commissionato un racconto per un’antologia destinata alla collana da edicola “Epix”. Mondadori mi fece regolarmente firmare un contratto e mi versò il compenso pattuito, ma il libro non vide la luce, perché la collana si arenò. Peccato perché, pensando alle altre firme coinvolte, suppongo che fosse un’antologia interessante. Nondimeno, per quanto riguarda il mio racconto, credo che sia andata meglio così. Non ne ero per nulla soddisfatto. In più, ho irrazionalmente interpretato la vicenda come un monito: non spetta a me produrre narrativa. Il mio mestiere è studiarla e, nel far questo, spesso riesumarla, perché da ricercatore tendo a occuparmi di ‘cadaveri’ letterari, sepolti o dispersi, comunque dimenticati. E mi piace traghettare tale ricerca nell’insegnamento, per quanto sia possibile in una cornice accademica che, per forza di cose, deve soddisfare esigenze curricolari. Dove sono mentre scrivo? Fisicamente, da una decina di anni, quasi sempre a Malta. Da qualche anno, per la precisione, nella camera che in casa ho adibito a studio. È una stanza le cui pareti sono quasi interamente coperte di libri, qua e là inframmezzati da oggetti che i più trovano bizzarri: un pendolino per la radiestesia appartenuto al mio nonno materno, il gioco da tavolo “I messaggi dalla Quinta Dimensione” di Tony Binarelli… All’università leggo e correggo esami, elaborati, tesi, incontro studenti e colleghi, sbrigo mansioni amministrative, preparo le lezioni. Ma per scrivere saggistica devo purtroppo isolarmi, ed è uno svantaggio. Invece, per quanto riguarda l’ispirazione, di frequente le idee che danno forma a un libro, a un articolo o, più banalmente, suggeriscono un collegamento fruttuoso, un’insolita pista da battere, mi si affacciano in luoghi pubblici, affollati, talvolta mentre sono alla guida. Mentalmente, già da ragazzo mi era chiara una cosa: che la lettura e la scrittura, dalle più leggere alle più impegnate, si reggono su un equilibrio portentoso tra automatismi e protocolli pragmatici (più o meno consapevoli, più o meno rituali) ed evasioni immaginarie e immaginifiche, creative e irrequiete, se non addirittura estatiche (nell’accezione etimologica del termine, ossia l’essere fuori di sé). Per quanto si tratti di saggistica, dunque, mentre scrivo sono costantemente ancorato al qui e all’ora ma, simultaneamente, assaporo generosi bocconi di vari altrove e altroquando.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Alla fine di molte narrazioni d’intrigo (uso l’espressione per semplificare) coloro che inizialmente sono presentati come vittime e coloro che rispondono all’identikit del criminale si scambiano i ruoli o, come assiduamente accade nel noir, le vittime sono a loro volta assassini, gli assassini sono anche vittime, e nessuno si rivela essere innocente. È una prassi talmente diffusa da non disorientare più i lettori, avvezzi ormai a tali colpi di scena. In ambito saggistico la faccenda è differente. Parecchi critici mal digeriscono una ricostruzione che ribalti impressioni diffuse e date per assodate, che offra una diversa prospettiva su autori, collane, riviste e fenomeni culturali in generale, contraddicendo il punto di vista di qualche intellettuale illustre e, appunto per questo, da considerare intoccabile. Sono rimasto in più occasioni sorpreso dall’attaccamento viscerale, se non di acritica venerazione, che numerosi studiosi manifestano nei confronti di certe interpretazioni. Va da sé che non sto parlando di ipotesi gratuitamente provocatorie, formulate a naso o, peggio ancora, di biechi e strumentali revisionismi. Faccio riferimento a dati, nomi, titoli che emergono in quantità rilevanti da ricerche d’archivio e consentono di smentire, o comunque invitano a riesaminare, affermazioni che per decenni ci si è limitati ad assorbire e tramandare con atteggiamenti dogmatici, scavando entro perimetri già segnati (al massimo limitrofi) alla ricerca di dettagli e scoperte che, però, non minano l’assunto di base. Curiosamente, in Italia reagiscono in modo simile pure molti appassionati del cosiddetto fandom. Provo a spiegarmi meglio. Davanti a un’interpretazione che diverge dalla propria, il critico – ancor più se specialista – teme ripercussioni negative su quanto egli ha sostenuto attraverso pubblicazioni, lezioni, seminari. Il fandom, dal canto suo, con poche eccezioni fatica a dissimulare un senso di frustrazione e di inferiorità, dovuto principalmente al misto di spocchia e miopia che, nei riguardi del fantastico, del gotico, della fantascienza ecc., ha contraddistinto tanto le decisioni dell’apparato editoriale quanto, nel complesso, la condotta dell’accademia. Il fandom è così incline a santificare o farsi scudo di quegli autori (saggisti e/o narratori) che, al di fuori della sua stessa nicchia, sono assurti agli onori della cronaca e della critica e sono riconducibili – talvolta anche un po’ arbitrariamente – alla sfera della narrativa di genere. È un comportamento analogo, se si vuole, a quello degli emigranti italiani che, soggetti a svariate forme di stigma sociale, vivevano più intensamente, come una specie di rivincita, la vittoria della squadra nazionale o il successo di attori e cantanti conterranei. Ciò, a onor del vero, vale oggi particolarmente per autori che sono morti e, in un modo o nell’altro, sono divenuti ‘canonici’. Non di rado, infatti, il trattamento riservato dal fandom agli autori viventi che sconfinano o direttamente si affermano nel mainstream è di segno tendenzialmente opposto (ed è una questione parecchio complicata, che ci porterebbe troppo lontano). Seppur da angoli generalmente distinti, quindi, critica e fandom agiscono in prevalenza secondo istinti di autodifesa. A questo proposito, è senz’altro emblematico il caso dell’utilizzo pressoché ossessivo che si fa di Italo Calvino, ambito spinoso su cui ho insistito molto. Sono stato il primo a esplicitare come il quadro del fantastico italiano fornito da Calvino, cui ancora si rifà il 90% della critica e degli appassionati, sia a voler essere generosi una valutazione parziale. In tal senso, a mettermi sulla ‘buona’ strada quando lavoravo alla tesi di laurea è stato il saggio “Finzioni occidentali” di Gianni Celati, paradossalmente uno degli amici e interlocutori più stretti proprio di Calvino. Per rispondere chiaramente alla tua domanda, dunque, di frequente nei miei saggi e nelle mie curatele le ‘vittime’ che voglio riportare sotto il riflettore, cui voglio ridare diritto di parola, dopo anni di estromissione – per faziosità o ignoranza – dalle storie ufficiali della cultura (che per via di metafora si possono definire ‘assassine’), sono quegli scrittori, redattori, editori e illustratori che hanno contribuito alla formazione di un immaginario ramificato, effimero solo in apparenza perché, in realtà, metamorfico. Un immaginario che è un po’ come la lettera rubata del racconto di Poe: sotto gli occhi di chiunque voglia attentamente osservare (con un minimo di equanimità). Ma temo che neppure Dupin potrebbe avere la meglio sulla caparbietà dottrinaria di certi studiosi e appassionati.

Qual è il tuo modus operandi?

La mia maniera di agire, come ricercatore e saggista, è alquanto flessibile, oserei dire improntata a un sincretismo potenzialmente senza preconcetti (qualche preconcetto poi, almeno a livello inconscio, finisce sempre per interferire… diciamo che cerco il più possibile di non averne). Non sono l’alfiere di una data scuola di pensiero. Ci sono alcuni studiosi – pochi – cui guardo come a dei maestri, senza avvertire però il bisogno di seguirne fedelmente l’operato. Attraverso declinazioni piuttosto eterodosse, mi avvalgo a seconda dei casi di approcci che spaziano dall’analisi storica a quella psicanalitica, dalla sociologia all’antropologia, dalla stilistica alla filologia. Anche se devo riconoscere che, per la scelta degli argomenti da trattare, fungono primariamente da bussola il divertimento e la curiosità personali. Senza remore, nel mio laboratorio di studio faccio convivere e dialogare materialismo e spiritualismo, forme estetiche e mercato, le aspirazioni dell’autore di turno (se sono manifeste o in qualche modo deducibili) e la ricezione del pubblico. Se la scintilla iniziale è il piacere, una volta che comincio a scrivere subentra un altro obiettivo, e cioè una ricostruzione rigorosa o, se non altro nelle intenzioni, onesta. Capita infatti che in saggi che ho scritto anni fa, dieci o anche più, siano riscontrabili omissioni, imprecisioni, alle volte veri e propri errori, per lo più dovuti alla scarsa disponibilità, persino nelle biblioteche e negli archivi italiani, di fonti che sono oggi accessibili a tutti online. In questi casi ho cercato di porre rimedio all’interno di pubblicazioni successive. Non per niente sto tra le varie pensando a una seconda edizione, riveduta e ampliata, di Piccoli mostri crescono. Non c’è nulla di male nell’ammettere le proprie mancanze e inesattezze, anzi, ritengo che sia il dovere di ogni ricercatore.

Chi sono i tuoi complici?

I miei complici, in senso lato, sono tanti e diversi. Considero complici, ad esempio, i miei genitori e mia moglie Irene. Con quest’ultima ho anche firmato alcuni articoli. Vedo poi come complici quei docenti di scuola e università che, in forma diretta o indiretta, hanno suscitato o assecondato interessi che tuttora mi accompagnano. Senza di loro, come ho esternato anche nei ringraziamenti della mia prima monografia, forse non avrei fatto niente. Devo molto, per fare un nome, a Giampaolo Neri, il professore che al ginnasio mi ha insegnato italiano, latino, greco, storia e geografia. Un erudito straordinario, da poco scomparso, le cui competenze spaziavano dalla filologia dantesca al fumetto italiano. Determinanti, in anni successivi, sono stati gli incontri dapprima con Claudio Gallo, bibliotecario ormai in pensione, esperto di letteratura popolare, docente di storia del fumetto, e in un secondo tempo con Alberto Abruzzese, forse il più geniale, innovativo e indomabile sociologo italiano. Nel caso di Gallo, la complicità si è tradotta in un lungo sodalizio, con qualche intermittenza, sì, ma ancora attivo e ben saldo. La frequentazione di Abruzzese, dopo la laurea, mi ha proficuamente indotto a compiere un passo avanti: da italianista solo istintivamente eretico (o, per lo meno, tale per il predominante sentire accademico di allora) a esaminatore consapevole di una più estesa industria culturale. Giudico poi naturalmente miei complici colleghi, ricercatori indipendenti, giornalisti, collezionisti, appassionati e persino studenti con cui condivido la passione per certi argomenti e che, nelle maniere più varie, mi offrono stimoli preziosi.

Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!

Per il solo fatto di leggermi, quei pochi che lo fanno sono volenti o nolenti da annoverare tra i miei complici, fossero anche dei detrattori. È a dir poco incredibile quanto si possa imparare da quei lettori con cui, per ragioni diverse, si finisce per stabilire un contatto e successivamente un vero e proprio rapporto, anche a distanza. Mi rammarico che alcuni miei lettori non si sentano all’altezza di sviluppare certe loro riflessioni, o anche solo intuizioni, per non parlare di coloro che si astengono dal pubblicare i frutti di certe loro ricerche profonde e minuziose.

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

‘Messaggio’ è un termine un po’ troppo forte per i miei gusti, perché al di là del suo significato più neutro e comune rischia, slittando, di incasellarsi in un’area di rigide prescrizioni, dettate da chi si sente più ‘in alto’. Dietro le mie pubblicazioni c’è un triplice intento. Ribadire innanzitutto che i canoni, di ogni tipo ed epoca, generano esclusioni di opere coeve, senza le quali le stesse opere canoniche non possono essere debitamente comprese o, addirittura, spesso neanche esisterebbero. Intrattenere il lettore appassionato, raccontandogli ogni volta una o più storie che avvincono me per primo e, strettamente da questo punto di vista, il fatto che ciò che ricostruisco sia accaduto davvero si fa quasi secondario (mi accorgo così di contraddire la mia affermazione d’apertura ma, si sa, ogni aspirazione, cacciata dalla porta, rientra subdolamente dalla finestra). Infine, forse l’intento più vanesio, scrivere o curare libri che, con il famoso senno del poi, immagino che avrei amato leggere da ragazzo.