Inizierò il mio resoconto dai film della sezione “Retrospettiva” in edizione restaurata: Dust in the wind (Taiwan, 1986) di Hou Hsiao Hsien, primo di una trilogia ispirata alle esperienze di vita del co-sceneggiatore Wu Nien-jen, è insieme una storia d’amore “sottovoce” fra due giovani poco abbienti e uno spaccato di vita in un villaggio del nord-est del paese, dove il dover fare i conti con la fame rende i sogni e le velleità di trovare un lavoro decente qualcosa di molto precario. Flowers in the city jail (Filippine, 1984) di Mario O’ Hara, invece, si concentra sulla vita di alcune detenute in un carcere femminile di Manila, confezionando un’opera forse un po’ ingenua e non pienamente riuscita ma comunque di forte denuncia contro un sistema corrotto che condanna le donne sole e senza soldi a scontare la pena per crimini che spesso non hanno commesso (come nel caso della protagonista Angela), finendo poi per essere costrette ad atti sessuali con i guardiani dietro la complicità o più spesso l’indifferenza delle altre, più interessate a salvare la propria pelle che alla sorellanza o all’unione contro l’aggressore. Degna di nota la sequenza in cui Angela, braccata dalla polizia come una vera e propria bestia pericolosa, si nasconde fra gli animali di uno zoo cittadino.

Un'immagine tratta dal film Sri Asih
Un'immagine tratta dal film Sri Asih

Tra i film in concorso, segnalo il superhero(ine) movie Sri Asih (Indonesia, 2022) di Upi Avianto, secondo capitolo del Bumilangit Cinematic Universe (o BCU, equivalente indonesiano del Marvel Cinematic Universe, o MCU, e non a caso sostenuto dallo stesso Kevin Feige): ispirato a graphic novels e albi indonesiani, l’intero BCU prevede otto film, il primo dei quali, il divertente Gundala, era già apparso al Far East 23. Dopo l’eroe “proletario” maschile, è la volta di un’eroina badass in lotta contro la propria rabbia e contro nemici fra i quali figura anche un volgare e ricco rampollo dedito alla violenza contro le donne, e la protagonista Alana infatti non perde occasione per segnalargli tutto il proprio disprezzo. Nonostante manchi di originalità nello sviluppo della trama, Sri Asih si lascia apprezzare per una protagonista credibile, delle scene d’azione dignitose, e soprattutto per il saper da un lato evitare implicazioni politico-culturali imbarazzanti (a differenza di Wakanda Forever, dove i due regni di etnia non bianca invece di allearsi contro i dominatori anglosassoni si fanno la guerra fra loro!) e dall’altro non disdegnare uno scontro diretto fra l’eroina donna e il villain uomo (cosa di cui i franchise occidentali in era post-Trump e post MeToo sembrano ormai aver paura, vedi Wonder Woman 1984 e lo scontro fra Diana e Ceetah).

Una scena tratta dal fil  Marry my Dead Body
Una scena tratta dal fil  Marry my Dead Body

Sul versante commedia, Marry my dead body (Taiwan, 2022) di Cheng Wei-hao cerca con toni semplici e irriverenti di avvicinare la sensibilità del pubblico alla tematica LGBTQ+: il protagonista da omofobo incallito si ritrova suo malgrado costretto a celebrare un “matrimonio fantasma” con un ragazzo gay appena deceduto perché ha raccolto casualmente un sacchetto rosso lasciato dalla nonna del defunto. La regola vuole infatti che, per placare lo spirito di un3 giovane non sposat3 e donarl3 felicità, i parenti rimasti in vita organizzino un matrimonio fantasma con la prima persona che raccoglierà il pacchetto, per garantire un viaggio sereno nell’aldilà. Da commedia sgangherata e un po’ stupidotta, il film si trasforma lentamente in una sorta di casto BL, o boy’s love, genere letterario-cinematografico (ma originariamente creato nel manga giapponesi) molto apprezzato soprattutto dal pubblico femminile sia in Corea del Sud che in Cina, oltre che ovviamente in Giappone e a Taiwan. Trattasi di una storia d’amore (ma non sempre di sesso) fra due ragazzi immancabilmente belli, giovani e il cui struggimento a volte supera anche i confini fra la vita e la morte. Apprezzabile per il suo voler scardinare certi pregiudizi duri a morire a tutte le latitudini, sia per quel che riguarda il vivere la propria esistenza queer che guadagnarsi il rispetto come donna in una società maschilista (incisivo in tal senso è anche il twist che riguarda la protagonista femminile), Marry my dead body è meno stupido e zuccheroso di quel che può sembrare ad un primo sguardo e invita a superare i propri preconcetti e ad avere una visione più aperta, fra l’altro nell’unico paese dell’Estremo Oriente che ha legalizzato i same-sex marriages e alla guida c’è una presidente donna, Tsai Ing-wen.

(continua…)