Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Fisicamente e mentalmente… La trovo una distinzione azzeccata. Direi che, mentalmente, si scrive ovunque ci si trovi. Con una precisazione (che potrebbe fare rima con ossessione, compulsione): non si smette mai. Non sempre ce ne rendiamo conto, e così ci si aggira in quella stanza solitaria eppure affollata che qualcuno ha chiamato inconscio. Ne abbiamo la chiave, e sta a noi aprire o rinserrare l’uscio. Quando apriamo, nel migliore dei casi riusciamo a carpire un indizio, una suggestione dell’interno di quella stanza, prima di essere buttati fuori dalla sbirraglia della razionalità che ci richiama all’ordine. In quel momento, tuttavia, abbiamo già scritto: appena un appunto su qualsiasi cosa ci sia capitato a tiro: agendina, biglietto d’autobus, pacchetto di sigarette denudato del cellophane. Ogni tanto, fortuna vuole che quell’appunto diventi una storia o prometta di farlo, e allora cambia anche la postazione di lavoro: il tuo studio, il tuo computer, stralci di appunti che si assommano all’appunto iniziale. Si scrive ovunque, anche in sogno. Si torna a casa (fisica e mentale) e lì si costruisce da soli, fino a che il file ha assorbito gran parte dei relitti promettenti che si accatastano sulla tua scrivania.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Questa, credo, è la parte più difficile. E, come tale, succede che sia anche la fase più eccitante. Cerco vittime e carnefici che non siano figure di carta. Non disdegno gli identikit: sono un nobile strumento per mettere a fuoco i tuoi personaggi, ma occorre che essi ti parlino. Li stai invitando a trascorrere del tempo insieme a te: è indispensabile che ti offrano la loro disponibilità. Devono fidarsi di te al punto da mostrarti i loro modi, come si muovono, come parlano, quel che amano, quel che non farebbero mai per nessun motivo al mondo. E poi, chiederti un onesto cambio: una parte di loro in cambio di una parte di te. Nei casi felici di “simbiosi” fra te e i personaggi, può accadere che si ottenga il difficile e l’insperato: che costoro dicano la verità. Allora tocca a te, lo scrittore, fare in modo che di questa verità rimanga traccia. Scrivendone la storia.   

Qual è il tuo modus operandi?

Quello che ho appena, forse pomposamente, illustrato: un appunto scarabocchiato ovunque, appena ti coglie l’idea. Poi, da questo, indizi su indizi su indizi. È più facile quando si tratta di un true crime, nell’accezione di racconto basato su fatti di cronaca. In quel caso la documentazione prevale sull’invenzione, si tratta per lo più di “strappare” il fatto al rigore giornalistico e iniettargli linfa narrativa. Rendere accattivante e imprevedibile, viva, anche una faccenda cui di imprevedibile è rimasto ben poco – in apparenza – perché già registrata ed esposta dalle cronache.   

 
Chi sono i tuoi complici?

Mia moglie Raffaella, che è anche una delle editor migliori che io conosca e che mai conoscerò. Ex giornalista giudiziaria di lungo corso, lettrice smaliziatissima, implacabile soccorritrice di testi, anche di quelli che versano nelle condizioni più disperate. Se esistesse un ministero degli editor letterari, mi stupirebbe non vederle assegnare la carica di ministro. Non è “familismo” il mio. Non sono l’unico a dirlo. Provate a chiedere in giro.

 
Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!

Premesso che non posso rispondere in modo soddisfacente a questa domanda (lettori e lettrici fanno parte del mare senza volto a cui affidi il tuo messaggio in bottiglia), direi che il lettore ideale è l’ectoplasma che mi siede accanto mentre scrivo. A volte mi dà di gomito e mi sprona a proseguire. Altre volte mi sta alle spalle e, in quel caso, mugugna. Allora gli dico di andarsi a fare un giro, prendersi un caffè, fumarsi una sigaretta: insomma, di levarsi di torno. Poi ci sono materializzazioni dell’ectoplasma. Con un nome, un cognome, una vita, aspettative e poco tempo da perdere. Alcuni mi incoraggiano venendo alle presentazioni. O sui social, il male necessario di oggi. Ho una discreta base di gente che mi ha seguito negli anni. O ha appena cominciato a leggermi. Alcuni sono diventati anche miei amici. Altri sono diventati scrittori a loro volta, per la collana “Le dalie nere” che io e Raffaella dirigiamo per IanieriEdizioni. Molti, curiosi di sapere “da che pulpito venisse la predica” sono diventati miei lettori, motivatissimi, onesti, fedeli. Vedi, si tratta di un mutuo scambio: la serietà con la quale ho valutato i loro scritti l’hanno ricambiata incuriosendosi dei miei. Abbiamo di che parlare quando ci incontriamo. E, cosa più importante, si innesca uno scambio di idee. Cosa c’è di più prezioso e saziante, soprattutto in un periodo che vede lo scambio di idee come una debolezza da parrucconi incapaci di urlarsi addosso? Rispetto reciproco e reciproco interesse letterario e umano. 

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

Non ho un messaggio prestabilito e per me sarebbe un guaio averne. Per come la vedo io, vengono prima la storia, i personaggi, le sensazioni, l’onestà intellettuale dell’insieme e poi, forse, il “messaggio”. Che può essere chiaro e inflessibile quanto si vuole, ma è comunque soggetto alle infinite interpretazioni che può e vuole darne il singolo lettore. Dal canto mio, mi limito a mantenere una certa coerenza nei temi (il mondo visto da personaggi con una buona carica di ingenuità – a volte bambini –, il loro confronto con una realtà feroce, la perdita dell’innocenza e la lotta per riconquistarla…) Ma non è noioso partire da uno schema? O voler approdare a tutti i costi a un principio che può suonare come una lezioncina? Sto attento a prendere nota del messaggio, ma scelgo di dimenticarmelo. Metterebbe in fuga o ammutolirebbe i personaggi. E io a loro ci tengo.