Benvenuto Alfredo. Oggi stai per laurearti in lingue e letterature straniere ma hai alle spalle differenti esperienze professionali: cameriere, distributore di volantini, venditore telefonico e contabile ai mercati generali della frutta. Quanto queste attività hanno impreziosito il tuo bagaglio culturale/fantasioso/umano?

Ciao! Più che altro mi hanno mostrato il lato più duro (e in alcuni casi umiliante) del lavoro “non specializzato”, quella giungla in cui tanti giovani si perdono per tirare a campare. Non che con la laurea la cosa migliori di tanto, ma ci proviamo. Riguardo il “bagaglio culturale” e la fantasia direi che queste attività rischiano di ammazzarteli definitivamente: un anno di call-center è un’esperienza che ti sottare un sacco di tempo e ti brucia più neuroni di qualsiasi bottiglia di whisky, credimi.

“Six Shots” (uscito nella collana Eclissi di Edizioni XII, 2010), è una raccolta di sei storie con indiani, ubriaconi, pistoleri e personaggi borderline. Come hai coniugato la mostruosità dell’horror con l’elemento western?

M’è venuto spontaneo. Mi piace l’horror, ma non molto quello ambientato ai giorni nostri. Infatti i miei autori preferiti sono quelli un po’ datati (Lovecraft, Poe, Stevenson, Clark Ashton Smith ecc.), dove l’orrore risiedeva in tempi lontani. In più mi è sempre piaciuto il mondo del west (sia quello della realtà storica che quello della migliore fiction) e così ho unito le due cose in “Six Shots”.

Quanto siamo western oggi? Ci fai degli esempi?

Mah, poco nulla direi. Il Vecchio West è stato un periodo troppo peculiare per trovare somiglianze coi nostri tempi, sono cambiate tante cose. Ad esempio facendo riferimento alla figura a me più cara, quella del fuorilegge, il paragone tra un Jesse James o un Billy the Kidd e un qualsiasi criminale dei giorni nostri non regge, si è persa quell’aura di romanticismo che faceva di un personaggio negativo una leggenda. Resta invece più o meno invariata la figura e il modus operandi di tutti quegli industriali che s’arricchivano (e s’arricchiscono) sfruttando la povertà dei più deboli, basta guardare alla situazione delle nostre grandi imprese che speculano sugli operai.

La differenza è che nel West chi non ci stava a farsi sfruttare si procurava una pistola e viveva al di fuori della legge provando a prendersi per forza ciò che non gli era dato per diritto, mentre oggi si tende a subire passivamente.

Lo shining del tuo weird western.

Guarda, non so se abbia la luccicanza. E’ un libro che può piacere un sacco o per nulla, può fare anche schifo. Dipende da chi lo legge, come per tutti i libri, credo. Non ha una morale, neppure un significato recondito, è puro entertainment e se uno gli si avvicina chiedendo solo questo, be’, potrebbe divertirsi. Ha un’atmosfera, un’unità di fondo, gioca principalmente sull’umorismo e sulla pseudo-epicità di certe situazioni. Poi, naturalmente, spero che sia gradito soprattutto da chi è già appassionato dell’argomento, di questo sarei molto contento.

Come hai costruito i personaggi?

Diciamo che è l’aspetto su cui ho lavorato di più, spero che si noti. Sono partito dal classico modo di descrivere dickensiano che ho poi cercato di coadiuvare con dialoghi da cui trasparisse il carattere, tentando sempre di attribuire alle azioni una coerenza col modello comportamentale di ciascun personaggio (vabe’, ho scoperto l’acqua calda, ma credo sia importante). L’obbiettivo era dipingere dei tizi bizzarri, fuori dalle righe, esagerati se vuoi, e inserirli in situazioni altrettanto assurde. Ne è venuta fuori un’atmosfera più “weird” che orrorifica, che tende all’ironia anche in momenti “drammatici” o carichi di tensione.

E i luoghi? Li hai immaginati, visitati, trasposti dal cinema?

Ho visto un sacco di film western, ma ho anche letto qualcosa sull’argomento. Mi sono un po’ documentato su come venivano gestiti i saloon, sulla geografia del West in generale, pure sull’incidenza demografica di varie etnie (vedi i neri) in determinate zone. Quando volevo descrivere una città come Baton Rouge cercavo foto d’epoca e poi me le immaginavo in movimento, è stato divertente. Mi immaginavo lì a camminare tra le botteghe, le strade polverose, pensavo agli odori, ai suoni di quei posti.

Il tuo stile è stato definito «veloce, immaginifico, a tratti delirante, visivo e assassino come una lama di coltello». Cosa ti prefiggi, dal punto di vista stilistico, quando scrivi?

Di non annoiare. Sarebbe già un buon risultato per me, quindi tendo ad alternare brevi descrizioni a dialoghi rapidi e spesso essenziali, privilegiando l’azione. Però spesso ci ficco dentro, in brevi paragrafi, anche ciò che pensa un personaggio, magari i suoi tormenti interiori, o spesso parto dal paesaggio come dipingendo un quadro e poi ci ficco dentro gli avvenimenti.

Progetti?

Un paio. Non li dico perché porta una sfiga pazzesca.

Ci saluti con una citazione dal tuo libro “Six Shots”?

Be’, se posso, citerei una riflessione molto poetica da “La notte del poker”:

Ci sono situazioni che un uomo può affrontare a testa alta, con stoica rassegnazione e sprezzante fatalismo, senza versare una lacrima o lasciarsi sfuggire un lamento. E poi ci sono, più rare, quelle in cui anche il più coraggioso dei figli di puttana si mette a frignare come un moccioso di quattro anni, pregando e picchiando i pugni sul pavimento mentre inesorabile si compie il suo destino. Ebbene, una quadruplice inculata da parte di una comitiva di energumeni finocchi superdotati rientra in questa seconda categoria, ed è quanto di peggio possa capitare a un maschio eterosessuale dall’alba dei tempi di questo strano pianeta verde-azzuro che gira attorno a una palla di fuoco.”