Madre Erika lascia la biblioteca. Scende le scale piene di vento.

Raggiunge la grande sala dei lavacri. Si toglie di dosso la tonaca squarciata dagli artigli.

Rimane nuda, in piedi sul pavimento di pietra gelida, tra grandi

pareti di granito. C’e` ancora bellezza nel suo corpo. Gambe lunghe, ventre piatto, seni tesi. Una violazione, questa. Peccato, forse sacrilegio. Mai, mai, una sposa di Cristo deve scoprirsi. In nessun luogo, a nessun costo. Madre Erika pare farsi beffe del sacrilegio. Cristo non ha incontrato l’inquisitore dei topi. Lei sì.

Sergio Altieri, Magdeburg2: La Furia, Corbaccio 2006, pp. 46-47.

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Marisol vive sola.

Bella e libera, non direbbe di no a una tentazione. Ma vive di corsa.

Secondo un banale sillogismo, ha sposato il suo lavoro. Spesso se ne rammarica, ma vorrebbe di più. Qualche mese prima ha scoperto come unire l'utile al dilettevole, il lavoro di giornalista alla musica e alla danza. Come migliaia di altre ragazze spagnole, segue una delle tendenze più cool degli ultimi tempi: a dormire nel tardo pomeriggio, una volta finito il lavoro, e quindi saltare la cena. A mezzanotte con gli altri a rombare per le strade con le divise di rito. Vestita per uccidere.

Danilo Arona, La stazione del Dio del Suono, in Bad Visions, EPIX 11, Mondadori 2010, pp. 33-34

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Marla non parlava mai con nessuno in paese e la gente faceva di tutto per starle alla larga. Dicevano che era una tipa strana, solitaria. Alcuni mormoravano avesse fatto un patto col diavolo ma a me queste dicerie facevano ridere, era tutta invidia pensavo, perché non accettano una donna che fa un mestiere da uomo. (...) L’altro pomeriggio era davanti a me dal ferramenta. Ha elencato tutto ciò che le serviva con voce roca e sensuale ma sbrigativa, poi se n’è andata ma prima si è voltata e mi ha gettato uno sguardo indefinibile da dietro agli occhiali da sole.

Avrei voluto toglierle quei dannati occhiali."

Cristiana Astori, Il regalo di Marla, in Il re dei topi e altre favole oscure, Alacran, 2006,p. 235.

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Monica è una lesbica dichiarata che grazie alla boxe aiuta le donne a difendersi da un mondo che le vuole in grembiule e tacchi a spillo. Monica ha aperto La Newgirls Boxing Club è uno di questi. La prima palestra per donne pugili del Nord Italia.

Perchè le donne si amano anche così: aggressive, sporche di sangue, muscolose

Barbara Balbiano, A suon di pugni in Lo sport in rosa, ed. Perronelab 2010, p. 57.

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Luana è la più bella della classe, anzi, la più bella della scuola. Per cominciare, è alta almeno un metro e settantadue.

Non gliel’ho mai chiesto e non ho neppure avuto per le mani la sua carta d’identità per controllare, so solo che le poche volte che me la ritrovo di fianco incontro lo sguardo delle sue tette sode. Sembrano scoppiare dentro quei reggiseni a balconcino, le sue tette. Luana ha occhi grandi con ciglia da diva di un film degli anni Cinquanta. Lunghe, che si piegano sensuali verso l’alto, verso il cielo che sicuramente la benedice nelle giornate di sole, quando è più azzurro.

Barbara Baraldi, Lullaby - la ninna nanna della morte, Castelvecchi 2010, p.31.

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Però, guardando la luna riflessa sul mare, pensò anche, e sorrise a quel pensiero, che se fosse morta in quel momento la morte non le avrebbe fatto male. Era troppo felice.

Remo Bassini, La donna che parlava con i morti, Newton Compton 2007, p. 195.

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Fa girare la donna, finalmente la sua faccia torna a schiacciarsi contro il sesso di Loretta.  Senza la sovrapposizione del collant, ha perduto l’aroma dell’aglio, si è ammorbidito. Spaghetti alla pescatora, e il soffio di aria fresca rilasciato dal detergente intimo. Le mani artigliano l’orlo delle mutande, le abbassano, la faccia preme sulla peluria ispida, la lingua salpa nel brodo di cottura, risale fino alla carne cruda del mollusco. 

Luigi Bernardi, Senza luce, Perdisa Pop 2008, pag. 75.

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Ha mantenuto il tono bamboleggiante da star delle passerelle: succeda quel che vuole, Marina è il tipo che in ogni occasione gioca alla reginetta della festa.

«Lo sa che sono stata miss Ivrea?» dice sempre a un certo punto, distrattamente.

È ancora snella e abbronzata, ma gli anni e le diete ferree hanno indurito la sua figura. Un esame accurato del viso rivela piccoli interventi di chirurgia estetica. L’orrore del declino ne ha fatto una creatura impaurita e feroce: ogni volta che appare in pubblico s’impone di sedurre tutti i presenti e punisce duramente ogni disattenzione, avvolgendoti con una stizza velenosa che può durare mesi.

Valter Binaghi, La porta degli Innocenti, Dario Flaccovio Editore 2005, pag. 112.

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Non si era reso conto che fosse così bella. Sotto il maglione di lana sottile e la gonna scura si delineava un corpo delizioso, leggero. E ora gli sembrava di scorgere linee nascoste, lungo le sue guance, e che disegnavano i suoi occhi di cenere. Linee troppo poco appariscenti, troppo poco evidenti per rivelarsi a un primo sguardo.

Linee bellissime.

Daniele Bonfanti, Melodia (Edizioni XII, 2007-2010), pag. 95

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Di natura sono un tipo impressionabile. Le cose non hanno mai avuto ai miei occhi confini precisi, obbedienti ai profili legalizzati del senso comune. Per me sono piuttosto “atmosfere”. Mutevoli, fluide. A volte mi ci trovo dentro, non so come. Le tocco e mi si schiude il passato da cui vengono, le esperienze, i contatti depositati in esse, come impronte fossili.

Roberta Borsani, Sangue del suo sangue, Alacrán 2010, pag. 22.

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Lei voleva un uomo. Camminava per strada e si rifletteva nelle vetrine. Distoglieva lo sguardo e proseguiva parlando da sola. Pensava in continuazione. Non smetteva nemmeno quando si massacrava di patatine fritte e frappè alla banana. Vestiva leggero anche nei mesi freddi. E calzava sandali aperti con calze trasparenti. Di mestiere guardarobiera alla Scala. Per questo Olga si vestiva old fashion, con quel che riusciva a trovare nei magazzini dell’usato di cantanti liriche o attrici sovrappeso. Verdi acidi, arancioni cangianti, volant. Lavorava in teatro e le piaceva stare tra le muffe e gli scricchiolii. Lì, una volta, in un camerino vuoto, un uomo l’aveva presa da dietro, buttata sul tavolo dei trucchi e aveva cercato di penetrarla. Ma non era riuscito. Per qualche motivo la sua erezione non aveva retto e dopo averla pestata sulla grande schiena, l’aveva lasciata stordita e contusa. Non riuscì a identificarlo ma era certa fosse straniero. A parte un livido, le rimase una certa sensazione di scampato pericolo, ma anche altro. Diede la responsabilità alle mutande bianche ascellari contenitive. Viveva circondata da donne extralarge di grande impatto emotivo e visivo. Quadri di Botero alle pareti e buone riproduzioni in bronzo di Marinetti. Tutto over size ma tutto estetico. Cuciva orli infiniti, adattava giromanica larghi come cosce, appuntava girovita quadrangolari. Lei formosa come loro, le divine ugole d’oro. Una casta diva che sognava di passare a miglior vita, molto terrena e materiale però. Decisamente extralarge. Olga viveva consapevole del suo ingombro ma certa di possedere un fascino niente affatto superfluo.

Elisabetta Bucciarelli, Femmina de luxe, Perdisa Pop, Bologna 2008, pp. 9, 17-18.

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Berenice era una fautrice del progresso e giudicava una barbarie che, alle soglie del XX secolo, la condizione femminile fosse ancora così rigidamente imbrigliata in schemi arcaici e limitativi. A suo modo di vedere dipendeva dalle donne stesse, e benché una ristretta percentuale rivendicasse una totale uguaglianza con gli uomini, le altre non sembravano perseguire aspirazioni diverse da quella di realizzarsi in ambito matrimoniale. Naturalmente a parole tutte lamentavano diritti negati e volontà di affrancarsi dal soffocante predominio maschile cui erano state soggette per secoli. Chiacchiere, perché poi si innamoravano e addio sogni di emancipazione! Gettati alle spalle proteste e reclami, si accontentavano del tradizionale ruolo di moglie prima e di madre dopo.

Maria Angela Camocardi, Il Talismano della Dea, Harlequin Mondadori, I Grandi Romanzi Storici Special 2009, capitolo 13.

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La donna si avviò alla cassa continuando a chiacchierare con la manicure. Il coiffeur le guardò il culo perl’ennesima volta. Non era solo bello, lei lo faceva ondeggiare in modo perfetto. L’occhiata non sfuggì alla moglie, che stava asciugando i capelli a un’altra cliente e subito pregustò la battuta velenosa che avrebbe sibilato non appena quella fosse uscita. “Negra e puttana” sarebbero state le prime parole. Nessuna delle due era corretta. La pelle era ambrata e gli occhi azzurri, come può capitare quando un’algerina di Sétif e un bretone di Saint-Malo decidono di mettere al mondo dei figli. Superava di qualche centimetro il metro e settanta ma i tacchi degli stivali la facevano sembrare più alta, il corpo era pieno e sodo e le movenze flessuose e sensuali, da ballerina di danza del ventre. Si esibiva da oltre venticinque anni nei night di tutta Europa e per quello la parrucchiera si era sentita autorizzata a darle della donnaccia.

Massimo Carlotto, L’amore del Bandito, Edizioni e/o 2009, pp. 9-10.

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Un'altra fitta di dolore, più intensa.

Un accenno di nausea le aveva fatto spalancare gli occhi: il panico stava sbriciolando il suo autocontrollo.

Era terrorizzata da quegli spasmi che non poteva controllare: il corpo si sottraeva alla sua vigilanza, l'organismo decideva da solo come agire. Il panico la travolgeva ogni volta che si trovava di fronte a un evento nuovo, a qualcosa che non conosceva, su cui non poteva esercitare alcun potere di controllo.

Gaja Cenciarelli, Il cerchio, Empiria 2003, pag. 80.

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Adia poggiò un gomito sul tavolo e sorrise, mostrando denti bianchi e regolari. «La mia è una famiglia di alchimisti. Mio padre non ha avuto figli maschi e ha trasmesso a me le sue conoscenze. Non è una cosa comune, ma a volte succede.»

«L’uomo che mi ha fatto il vostro nome ha parlato di voi come di una fattucchiera», disse Mondino.

Adia si chinò leggermente verso di lui e Mondino vide che non era poi tanto giovane. Doveva avere circa venticinque anni, eppure in quella casa non si avvertiva la presenza di marito e figli. Poteva essere che una donna così bella non avesse trovato un uomo disposto a chiederla in moglie? O forse era lei che non voleva sposarsi? Sembrava un’assurdità, ma dato il tipo poteva anche essere.

«La gente diffida di una fattucchiera», disse Adia, seria. «Ma diffiderebbe molto di più di una donna che si occupa di scienza. Ho scelto il male minore.» Sorrise di nuovo, e a Mondino parve di vedere nei suoi occhi un’ombra di tristezza. «Inoltre, la qualifica di fattucchiera serve a tenere a bada gli uomini», aggiunse. «Quelli buoni e quelli cattivi.»

Alfredo Colitto, Cuore di Ferro, Piemme 2009, pag. 271.

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«Non ti ho lasciato vincere apposta» confessò Delia «Cerca di capire: eri il padrone, non potevo obbedirti, cederti, o permettere che mi dominassi, era una questione di principio! Ci tenevo troppo a diventare libera, e mi sforzai a tutti i costi di batterti; mentre giocavo, però, mi venne in mente che, se avessi perso, la barriera innalzata tra noi due sarebbe caduta: volevo vincere e perdere al tempo stesso e questo conflitto abbassò mia soglia di attenzione, così non riuscii a spuntarla. E' il Fato, mi dissi,  ma a quel punto tu rifiutasti incredibilmente di riscuotere la posta!»

Aurelio ascoltava stupito, senza reagire.  «Ora che sono libera, però, ho il diritto di fare quello che voglio, e questo è esattamente quello che voglio da quando ho messo piede nella tua casa!» disse Delia sfiorandogli il collo con la bocca umida.

Danila Comastri Montanari, Cui prodest?, Serie Publio Aurelio, (prima edizione 1997), edizione economica Hobby & Work 2005, p 297.

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Sono questi i complimenti che mi fanno piacere, ad una attempata signora che vorresti mai dire? Guardi come le sta bene quella messimpiega azzurrognola da vecchia Fata Turchina? Ma andiamo, su, sono le sinapsi che bisogna tenere in allenamento, che ormai le gambe delle Kessler hanno lasciato il posto ai gambaletti sanitari.

Gaia Conventi, La morte in pentola, Ed. Forme Libere 2010, pp.10 e 11.

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Era un po’ che avevo preso a frequentare Alison. L’avevo agganciata durante una esercitazione in europa qualche anno prima della guerra. Un paio di battute e qualche occhiata che andava oltre la naturale simpatia. Quando me la ero ritrovata a Fallujah in Iraq, avevamo ripreso il discorso da dove l’avevamo interrotto. Certo non era semplice in quel buco oscuro di mondo dove la civiltà era nata eppure Dio sembrava essersene dimenticato. Eravamo degli ufficiali ed eravamo dei Marine.

James Copertino, Angeli neri, Armando Curcio 2009, p. 16.

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«Lavoro per il quotidiano francese Liberation e sono qui per realizzare un reportage sull’Intifada. Soddisfatto?»

«Un reportage dalla parte di chi?», questa volta fu uno dei ragazzi a parlare.

Juliette si voltò nella sua direzione.

«Perdonami, ma la domanda è sbagliata in partenza. Io non sono dalla parte di nessuno, altrimenti non sarei onesta nel mio lavoro. Sono qui per capire le ragioni dell’uno e dell’altro e per vedere ciò che voi e gli israeliani non ci permettete di vedere dall’esterno.»

Laura Costantini e Loredana Falcone, La guerra dei sordi, Maprosti&Lisanti editore, p. 24.

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Sono distesi sul letto, nudi, vicini. Giulia Vita guarda Andrea. Ha i capelli brizzolati, gli occhi azzurri, il naso grosso, un po' di pancia. Con una mano gliela sfiora. Le piace quella morbidezza.

Anche Andrea la sta guardando. «Sei bella».

«Ho quasi quarant'anni, non ho figli, non sono sposata, il mio compagno in realtà è il marito di un'altra. Il prototipo della poliziotta sfigata». Mentre lo dice Giulia Vita sorride.

«Tu non sei il prototipo di niente, Giulia, credimi».

Andrea Cotti, Un gioco da ragazze, Oscar Mondadori 2008. Pp. 157-158.

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Prima di morire, mia nonna mi aveva avvertita: Jasmina, aveva detto, i sogni devono restare tali se vuoi continuare a vivere felice. Io le avevo risposto che di sogni ne avevo a milioni e quindi avrei avuto una discreta autonomia di felicità. Ora so che non è così. Anzi, forse è così, ma non è questo il punto

Al Custerlina, Balkan Bang, PerdisaPop 2008, p. 171.

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Appena fu sulla soglia sentì il profumo. La memoria dei sensi anticipò quella della mente, e rivide l'immagine flessuosa, gli occhi limpidi e l'andatura felina prima ancora di pensare a Livia, dentro quell'odore esotico di spezie. Si guardò attorno e la vide, sorridente, seduta all'angolo opposto a quello del morto e, come lui, in attesa di un arrivo.

Maurizio De Giovanni, Il posto di ognuno, ed. Fandango Libri 2009, p.158.

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I lunghi capelli setosi della ragazza si allargavano a corona, come petali di un fiore. I suoi occhi vellutati avevano la scura profondità dell’oceano, la sua bocca era una rosa minuta profumata, il suo collo sottile, miele da suggere…

Allungò la mano destra e sfiorò languida la guancia dell’amante.

Patrizia Debicke, L’uomo dagli occhi glauchi, Corbaccio marzo 2010, p. 111 (la donna è l’amante del cardinale Farnese ritratta da Tiziano come Danae).

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Sono passati molti anni, ormai, da quando frequentavo il bar della Pina.

Era un locale vecchiotto già allora, con le sedie e i tavoli di formica, i muri ingialliti dalla nicotina e il gabinetto alla turca. La padrona di casa era un donnone alla Moira Orfei. Se ne stava dietro il bancone a qualsiasi ora del giorno e della notte, perennemente intenta ad asciugare un bicchiere con uno strofinaccio consunto; all’angolo della bocca carnosa, evidenziata da una buona dose di rossetto carminio, l’immancabile mozzicone di sigaretta senza filtro, la cui cenere rimaneva appesa in lunghi cilindretti grigi a sfidare la legge di gravità.

I clienti affezionati, giovani e anziani, la chiamavano“Mamma”.

Emanuele Delmiglio, L’uomo dei segreti, Vie Traverse, 2008, Inchiostro-Il Riccio editore, p. 21.

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Le rivolgo un timido sorriso, il mio sguardo vorrebbe incoraggiarla a proseguire il racconto. Viviana è concentrata sul samosa, lo mangia lentamente, rosicchia il bordo, come fanno i bambini viziati con un cibo di cui apprezzino solo l’impanatura.

Fisso la sua bocca, ipnotizzato da quei rapidi movimenti meccanici.

Forse è amore, cazzo, anche se non pensavo che si sarebbe manifestato così.

“Continua, per favore” la incito.

Lei sposta le pupille su di me e mi fulmina, maliziosa.

Poi riprende da dove si era interrotta.

Matteo di Giulio, Quello che brucia non ritorna, Agenzia X 2010, p. 141.

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Non fosse stato per l’occhio di vetro e la cicatrice che scendeva lungo la guancia destra disegnando una falce, Jadranka Dragan avrebbe potuto essere la sosia perfetta di Angelina Jolie.

Nel 2000 a Belgrado c’era una taglia sulla mia testa. Ho dovuto fare una plastica facciale. Ho scelto il viso di una diva. Sono stata punita per la mia ambizione. Un sicario bulgaro ha cercato di uccidermi. Il risultato lo vedete. Ho ucciso personalmente tutta la famiglia di quell’uomo. Vi sto dicendo queste cose per un unico motivo. So chi siete. Non mi fate paura.  Questo è il mio territorio. Se cercate di fregarmi, vi ammazzo.

Stefano di Marino, Jadranka da 'Beirut gangwar', Mondadori 2008, p. 42.

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Sorrido, scambio battute con gli altri, bevo qualche sorso dal mio bicchiere, faccio credere che vada tutto bene, fingo di rilassarmi. Ma sento una puntura, una spina nel fianco, qualcosa nello stomaco che non va né su né giù.

A volte vorrei essere un sasso. Essere fatta di materia inerte sarebbe forse più noioso, ma di sicuro sarebbe più facile.

Eliselle, Le avventure di una Kitty addicted, Zorro Editore Marzo 2010.

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Macary non riusciva a distogliere lo sguardo dalla dama. Era troppo bella ed elegante per non attirare tutte le attenzioni. Aveva occhi scuri, acuti e maliziosi, e sopracciglia finemente disegnate.

La capigliatura, castana tendente al biondo, le sormontava il capo in spire, scoprendole il viso. L’abito accollato, d’uso nelle colonie delle Indie occidentali, non riusciava a nascondere le sue forme prepotenti. Il mezzo sorriso che manteneva sottolineava il potere di seduzione che sapeva di avere.

Valerio Evangelisti, Veracruz, Mondadori 2009, p. 38.

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Se ne stava tutta sola giù in cortile, seduta sul muretto con le gambe ciondoloni. Il gatto si era messo a sedere sulle sue ginocchia, e lei lo accarezzava, infischiandosene del golfino che le era caduto in mezzo al prato, o della gonna rossa a pieghe che il vento agitava in maniera scomposta. Allegra, masticava un filo d'erba, mentre grattava la schiena del persiano. Lo coccolava, passandogli piano le dita in mezzo al pelo, e di tanto in tanto mi scrutava, curiosa, arrossendo un po' quando i nostri occhi s'incontravano.

Cristiana Danila Formetta, Fetish Sex, Ed. L’orecchio di Van Gogh, 2009, p.48.

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Così il matrimonio fra lui [Annibale] e Himilce si era concluso con un rapido scambio di parole fra i loro genitori, e quando erano rimasti soli, lui e Himilce si erano resi conto che un unico destino li accomunava.

«Forse i miei dei non sono gli stessi che adori tu» aveva mormorato Annibale quando aveva avuto finalmente il coraggio di avvicinarsi a Himilce, «ma è stato il loro volere a farci incontrare.»

«Sì» aveva annuito lei, con la voce rotta dall’emozione. «Ho pregato tanto i miei dei perché questo accadesse. E loro mi hanno ascoltata.»

Quella notte avevano fatto all’amore in un modo che Annibale avrebbe conservato per sempre nei suoi ricordi, e Himilce non era più uscita dai suoi pensieri. Non c’era nessuna donna capace di stimolare in lui il desiderio come sapeva farlo sua moglie. E non c’era nessuna donna al mondo, oltre a lei, che avrebbe desiderato avere al fianco in quel momento.

Franco Forte, Carthago, Mondadori 2009.

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Assomiglia al cielo terso di questa tarda primavera strana, fredda e limpida.

La sposa era bellissima.

Questo diranno tutti i presenti e anche quelli che non sono stati invitati al matrimonio, ma l’hanno vista passare sotto le loro finestre, a piedi perché la strada dalla casa alla chiesa è breve e i soldi bisogna risparmiarli per cose utili e non per una macchina che non avrebbe dovuto percorrere neanche cinquecento metri.

Barbara Garlaschelli, Non ti voglio vicino, Frassinelli 2010, p. 154.

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Gli posa una mano sulla manica della giacca.

«Ti faccio i miei auguri, per tuo padre»;

aggiunge abbassando il tono. La Laura interessata e profonda gli è ancora più repellente perché il suo senso del non vero è carnale. In quella stretta c’è tutta la ferocia di cui è capace nei suoi quarantasette chili per un metro e sessantanove, capelli lunghi e lisci compresi.

Barbara Gozzi, Pelle (progetto 'Attorno al corpo di Eluana Englaro', spettacolo-performance)

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Giorgia la conosco da quando andavamo insieme all’università a Firenze, odorava di cera d’api e al pomeriggio già lavorava nell’ufficio paghe e contributi del padre zoppo da un occhio, si muoveva seguita da una collosa striscia di sguardi e io non le ho mai detto che mi dilatava cuore e sesso perché se mi avesse incalcolato avrei dovuto avere a disposizione un tunnel caotico per scappare il più velocemente possibile.

Paolo Grugni, Italian Sharia, Perdisa Pop 2010, p. 63.

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In bagno l’odore di Deda è più avvertibile. C’è il suo profumo, Chanel N° 5, che lei continua ad usare al di sopra e al di fuori delle mode, con noncurante indifferenza. C’è la sua trousse di trucco, e le spazzole, il phon e le creme da giorno e da notte – usa una marca francese poco conosciuta ed estremamente costosa che si fa inviare direttamente da Parigi – e una crema per il corpo senza profumazione.

Il suo odore è un misto di questi e altro, il lieve aroma delle sue sigarette preferite, e in più il sentore di cannella del suo dentifricio preferito – lo stesso dei suoi figli – e qualcos’altro ancora che non è possibile individuare.

Il suo accappatoio appeso ordinatamente in un angolo del bagno è impregnato del suo odore, e così anche la sua camicia da notte, sotto al cuscino.

Se qualcuno vi affondasse le narici dentro, ispirando profondamente, ne distinguerebbe le componenti con una certa precisione, e senza nemmeno l’ausilio dei corsi di approccio al profumo seguiti da Amanda.

Ma non c’è nessuno, ora, nella stanza di Deda, per sentire il suo odore.

Diana Lama, Solo tra ragazze, Edizioni Piemme 2007, pp. 79-80.

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La donna guardò Sciortino che rideva, e solo allora sorrise anche lei, forte, raschiando via tutta la sua paura con una risata roca che diventava acuta come un grido di vittoria.

Carlo Lucarelli, L'ottava vibrazione, Einaudi 2008, pag 286.

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È in IV Novembre, dove incombono le grigie mura del Palazzo Comunale, e va a sbattere contro una donna uscita di corsa dal numero sei. L’impatto è violento e se non la sorreggesse, la poveretta finirebbe lunga distesa. Fa per scusarsi, come la buona creanza gli suggerisce, ma la donna lo anticipa. È abituata a chiedere scusa.

«Mi scusi» mormora e alza gli occhi, vede contro chi ha sbattuto e si porta una mano sulla bocca. Anche Sarti Antonio, sergente, c’è rimasto male. Ha appena travolto Federica. Bologna è proprio una piccola città!

Federica ha in testa un fazzoletto annodato dietro la nuca, come un tempo le donne di casa facendo i lavori; indossa un grembiule grigio, guanti di lattice e porta il secchio con dentro uno straccio annegato in un’acqua nera per i troppi pavimenti luridi sui quali è passata. Federica mormora ancora:

«Sei tu! Scusami» e si vergogna e fa per riprendere la sua strada.

Sarti Antonio la ferma: «Che ci fai qui?»

«Be’, io… io qui ci lavoro. Pulisco gli uffici e sono in ritardo che stanno già arrivando gli impiegati. Scusa» e correrebbe via se Sarti Antonio non la bloccasse per un braccio. Buona parte dell’acqua finisce sulla strada.

«Vuoi dire che di notte tu, tu sei in giro a pulire uffici?» Federica annuisce. «Oh, cristo! E io chissà cosa credevo!»

Io lo conosco e so che si vergogna dei luridi pensieri che ha avuto sul mestiere di Federica. Le strappa il secchio dalle mani e lo posa in terra, le toglie il fazzoletto dalla testa, la prende per una mano e se la trascina dietro avvia verso Piazza Maggiore. Dice:

«Vieni, ti offro un caffè. Dobbiamo festeggiare!»

«Festeggiare cosa?» Gli trotta dietro, in ciabatte com’è, cercando di darsi una sistemata ai capelli. «Non ho tempo. Devo finire altri due uffici.»

«Per oggi li terranno sporchi!»

«Poi al bar conciata così!»

«Sei bellissima.»

Loriano Macchiavelli, I sotterranei di Bologna, Oscar Mondadori 2003, pp. 155-156.

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Claudia afferra la lama con la quale si è sfregiata e la consegna alla schiava che ha di fronte: - Non vorresti punirmi, io che ho tutto e tu niente? Io che posso disporre della tua stessa vita e tu di nulla? Non vorresti uccidermi? Essere me? Prenderti i miei vestiti e la mia stanza? I miei gioielli e la lettiga?

Mauro Marcialis, Spartaco il gladiatore a maggio 2010 con Mondadori.

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Mi aggiusto la riga delle calze, perché disegni il polpaccio. Sistemo la gonna, affinché lo spacco centri la falcata decisa sugli esili tacchi. Indosso il pullover accollato, grigio perla, ché il lutto intero è poco elegante; indosso giacca e cappello con veletta e fingo di baciare il caro estinto, che qui mi ha riportato, sotto il mio campanile

Rossana Mariangela Massa, La vedova Tirelli, Highlander 2009.

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Ho visto un uomo, questa mattina; perfetto, fatto di sogni miei. Me ne sono innamorata subito, nascosta dietro agli scaffali del riso e della pasta. Ho intuito immediatamente che saremmo stati felici, da come baciava sua moglie. La teneva stretta a sé, la robusta costituzione di un amore così pregevole da farmi sgorgare, sanguinea, la prima lacrima del giorno. L’ho seguito a distanza ravvicinata. Gli ho accarezzato i capelli con lo sguardo, e quasi sono inciampata nel commesso che era piegato a sistemare i fustini di detersivo. L’ho perso di vista. Non lo rivedrò mai più. Sono innamorata e sono corsa a casa, a dare un nome all’uomo che mi ha già abbandonata.

Christian Mascheroni, Le stagioni umane, in Corpi d'acqua, Voras Edizioni 2009, p.125.

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Ho un ricordo di mia madre che stendeva il bucato, fuori, dietro casa nostra. La guardai controluce, col sole negli occhi e mi ricordo della sua figura stagliata contro il cielo e le nuvole bianche dietro. Penso sia un bel ricordo.

Giuseppe Merico, Io non sono esterno, prossimamente con Castelvecchi.

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Come sono felice che ci siano delle donne, qui. Come vi amo, tutte. Tanti anni fa, ho detto a Eliana: il giorno in cui morirò, intorno a me voglio solo donne. Che me ne faccio degli uomini? Volti e mani e voci dolcissime di donne, che mi guardino entrare nella notte a poco a poco, con sorrisi di pietà. Fino a questo punto vi amo.

Raul Montanari, Strane cose, domani, Baldini Castoldi Dalai 2009, p. 276.

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Dea era quella che giocava a pallone con i maschi in cortile, quella che sfotteva gli spasimanti in discoteca fino a farli piangere. Era quella che rideva delle paure delle compagne di stanza, delle varie

Cosetta di Avellino, nei primi anni a Bologna. Che attraversava di

notte strade e giardinetti malfamati, che non aveva paura di arrivare

in stazione alle tre del mattino e trascinarsi la valigia fino a casa

sotto i portici deserti e bui.

Gianluca Morozzi, Luglio, agosto, settembre nero, Fernandel 2002, pag.71. 

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Si chiederà com’è che una bambina prodigio diventa una puttana: fu il signor Gröschl a farmi cambiare, e non ero che all’inizio. A volte penso che se non avessi conosciuto il signor Gröschl, adesso sarei stata qualcuno negli ambienti scientifici, ne avevo tutte le capacità, praticamente ero nata per questo. O mi sarei uccisa, come fece lui anni dopo, lo lessi sui giornali: la voglia di numeri e d’infinito gioca brutti scherzi… E allora chissà, forse mi ha salvata.

Sacha Naspini, I sassi, Ed. Il Foglio 2007.

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Una figura si stava muovendo dietro i pesanti tendaggi in seta color avorio: una figura femminile, avvolta in un magnifico abito bianco, stretto in alto, ampio e lungo e vaporoso verso il basso.

Un abito che ricordava mode di tempi ormai lontani, una figura bella e leggiadra, dalle forme dolci, rotonde ma leggere come l’aria.

Un solo pensiero attraversò fulmineo la mente di Willy: chiunque fosse quella donna, non poteva, non doveva essere lì!

Domenico Nigro, Bella M'briana in Geografie del Mistero, Giulio Perrone Editore/LAB 2010, pagina 7.

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Pietra Germani, meglio conosciuta come la Pierina, non passava certo inosservata. Alta, capelli neri, occhi vivissimi, sprigionava un'irresistibile carica erotica. Con lo sguardo, ma non solo con quello, catturava l'attenzione degli uomini e l'odio delle mogli che, riconoscendola da lontano, strattonavano i mariti come poveri animali da soma.

Giancarlo Oliani, Ti amo da morire, Sometti editoriale 2008,p. 135.

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Era lei.

La mia dottoressa.

Lo stesso profumo, lo stesso modo elegante di portarlo addosso quasi fosse la seconda pelle di un pitone reale. Non la distinguevo bene, ma ero certo di averla riconosciuta.

Seduta nello sgabello due posti oltre il mio, mi porgeva la schiena e le sue spalle nude e lucenti, sotto i chiarori opalescenti del disco pub, erano tese come tamburi non ancora battuti. La mia dottoressa preferita. L’unica donna che possedesse il potere di farmi mantenere per un’ora un’erezione costante senza stimolazioni fisiche.

Marilù Oliva, Repetita, Perdisa pop 2009, pp. 90-91.

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Moët era seduta un gradino sotto di me. Le ho guardato i piedi. Anche quei sandali da quattro soldi addosso a lei sembravano roba di lusso.

«Come fai?» ho chiesto.

Mi ha fissato da dietro le lenti scure. «Come faccio cosa?»

«A essere così femminile. Pensavo ci volessero ore di trucco. Non ti devi radere, non ti devi depilare, niente parrucca… Sei il mistero del secolo per me.»

Ha riso. «Sono semplicemente fortunata» ha detto, «ho il corpo giusto, non ho peli, sono giovane. E sono bella.»

Ha inclinato la testa. Le sue labbra si sono increspate in un sorriso furbo. «Non ti viene mai voglia di baciarmi?»

«No» ho risposto, «ma tu continua pure a insistere.»

Ha fatto il broncio, poi ha riso. Bella era bella.

Enrico Pandiani, Les italiens, Instar Libri 2009, p. 110.

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C’era stata una sua compagna di liceo – come si chiamava? – l’artista. Una sciagurata, dicevano tutti, marmocchia sognatrice con i capelli strani e il tormento dentro. Mara, ecco come. Era partita a diciannove anni, abbaiando. Mara che leggeva tanti libri. Mara che non girava la faccia e reagiva con forza a chi la derideva. La fuga di Mara è uno di quei ricordi che si afferrano in ritardo.

Antonio Paolacci, Flemma, Perdisa Pop 2007, pag. 73

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L’uomo scende furioso dal mezzo armato di fucile: mentre sciorina una serie di bestemmie e di offese, fa fuoco verso la moglie, mancandola. Charlene, invece di spaventarsi, risponde con la pistola e lo ferisce di striscio a un braccio. Subito dopo, però, l’amore ha di nuovo la meglio sulla rabbia. Lo raggiunge e lo medica premurosamente.

Giuseppe Pastore, In due si uccide meglio, Edizioni XII 2010, p. 98.

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Alzo il volume al massimo e canto a squarciagola.

«Respiri piano per non far rumore/ ti addormenti di sera ti

risvegli col sole/ sei chiara come un’alba/ sei fresca come

l’aria./ Diventi rossa se qualcuno ti guarda/ e sei fantastica quando sei assorta/ nei tuoi pensieri/ nei tuoi problemi...”.

Niente da fare, questa canzone Vasco l’ha scritta per Alessandra,

e per me.»

Carmelo Pecora, Polvere negli Occhi, editrice Zona 2009, pag 113.

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Era sempre stata una ragazza molto carina e ambiziosa. A diciannove anni aveva smesso di studiare e si era trasferita a Roma. Un paio di comparsate come sfondo umano in un programma domenicale. Ecco tutto quello che era riuscita a ottenere. In cambio aveva dato il suo corpo a una decina di agenti, produttori, politici e millantatori. Ma se il suo corpo non si era consumato, lei aveva perso qualcosa di più importante, che era sparito dai suoi occhi.

Era tornata a casa dopo tre anni, portando con sé soltanto le cassette su cui aveva registrato le sue apparizioni televisive. Tutto il resto l’aveva lasciato a Roma, compresi i suoi sogni. Sono ancora lì, le cassette, nel mobile sotto il televisore, con l’etichetta del nome della trasmissione e la data, a farle da cilicio quotidiano. Una storia che racconta a tutti, quella dei suoi dieci minuti di celebrità, un paio di inquadrature di pochi secondi.

Pierluigi Porazzi, L'ombra del falco, Marsilio Editori 2010, p. 77.

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La Dea Pagana siede vestita soltanto di un bicchiere, le gambe accavallate, su una poltroncina vicina al letto.

Luce spenta. Finestre chiuse. Caldo ossessionante. Umidità equatoriale. Scarsità di ossigeno. Niente aria condizionata nella casamatta, metà rifugio metà alcova.

Accendino.

Guarda con la luce lunare la sagoma del corpo nudo dell’uomo, steso sulle lenzuola fradice. Sorride mentre si accende la sigaretta.

Era un pezzo che non mi divertivo così.

Certi rapporti sessuali raggiungono livelli parossistici, dove la fisicità dell’atto porta alla perdita di controllo fino a sconfinare nella bestialità.

Certi incontri mandano il sangue al cervello degli amanti.

Certi amplessi sono al sangue.

La Dea ama il sesso e il sangue.

Non necessariamente in questo ordine.

Massimo Rainer, Rosso italiano, Barbera Editore 2007, p. 49.

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Capelli castani lunghi fino alle spalle costantemente spettinati, pelle chiara, occhi scuri… Un occhio scuro e uno no.  Lo guardava come se non le appartenesse mentre applicava il rimmel sulle  lunghe ciglia dell’occhio sano. Quando aveva vent’anni, passando davanti all’officina di un fabbro che smerigliava, una scheggia  metallica si era conficcata nell’occhio destro. C’era stata un’operazione inutile e da allora la pupilla era rimasta biancastra e senza vita. [...]

Da un sacchetto aveva estratto la rivoltella che usava per le esercitazioni al tiro a segno e si era avvicinata allo specchio per prendere di mira la sua immagine riflessa. Se non fosse stato per quell’occhio, avrebbe tentato il concorso per entrare in polizia. Aveva mimato con la bocca il sibilo di uno sparo.

Paola Rambaldi, La sguérza in Bassa e nera, Edizioni Pontegobbo,p. 73.

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Beatrice Salvetti suonava il pianoforte che aveva nel tinello. Debussy e Gherswin erano i suoi musicisti preferiti. Le dita correvano veloci e sicure sulla tastiera. Fin da piccola lo strumento aveva accompagnato il suo incedere, a volte esitante, sul sentiero della vita. Con esso aveva sempre diviso le poche vittorie e le tante sconfitte raccolte. Ma da quando era tornata dalla breve vacanza a Rabac qualcosa era cambiato. Non soffriva più d’insonnia e d’emicrania. Le crisi depressive di cui in passato aveva patito, le sembravano un pallido ricordo. Il mondo era divenuto più bello ed interessante.

Andrea Ribezzi, Sette fine – La prima indagine dell’ispettore Ravera, Ibiskos Edizioni 2009, Pp. 47-48.

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Ma sì, tutto sommato non male, pensa Leila, a piedi nudi, davanti allo specchio. Ruota il corpo, inclina la testa. I capelli scuri, tagliati a caschetto, le piovono di lato, coprendole una porzione di viso. Non male, però il tempo passa. Si osserva le gambe, sotto la minigonna attillata. Sono gambe snelle, ben disegnate. Anche i piedi sono affusolati. Ma Leila è in vena di verifiche. Solleva la minigonna, con l'indice e il pollice delle due mani strizza una porzione di carne, sul lato esterno della coscia sinistra. Sulla pelle si disegnano alcuni piccoli affossamenti. Stringe ancora di più, per vedere se i buchi di cellulite aumentano di numero e di profondità.

Giampiero Rigosi, Notturno bus, Einaudi 2000, pp. 9-10.

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Silvia appoggia una mano alla parete del corridoio, la fa scorrere, cammina poi fino al soggiorno. Il vuoto totale della casa le rinnova una voglia repressa di gridare anche solo per un istante, per sentire la propria voce echeggiare; non lo fa, non oserebbe mai.

Il vuoto, pensa, è l'unica cosa che vorrebbe dentro di sè.

Paola Ronco, Corpi estranei, Perdisa Pop 2009, pag. 98.

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Non siamo mai stati a letto insieme. L’ho toccata, accarezzata, anche baciata ma non siamo mai andati oltre. Ho quarant’anni e mi so controllare. Se fosse uno di quei vini che mi piace degustare nella sua scheda tecnica scriverei: tipologia: vino rosé, gusto morbido ma intenso, persistente nel finale, profumo di fiori di pesco e di rose.

Liviana Rose, Il ladro di rose in Oxe racconti erotici italiani, Zona Editrice 2006, p. 93.

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Sono nata per essere la luminosa raggiosità del sangue.

Sacha Rosel, dalla poesia Stain/Stein in Carne e Colore, Noubs Edizioni, 2008, 8 euro, p.33.

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Delia era il tipo di ragazza con cui Radeschi non avrebbe mai voluto avere niente a che fare. Lo capì nell'istante esatto in cui lei scese dal treno venendogli incontro con passo militare.

«Piacere», disse stringendogli energicamente la mano.

Nemmeno un filo di trucco, occhiali da miope, piatta come un asse da stiro, chignon dietro la nuca stile signorina Rottermaier.

[...] Delia non era una che amasse stare in silenzio. Né aveva paura di esprimere, sin dal primo istante, le proprie idee. Piacesse o no, sembrava dire, lei era fatta così; bisognava abituarsi. Una ragazza diretta, seria, sempre pronta a combattere tutte le battaglie per cui valesse la pena impegnarsi.

Negli otto minuti di tragitto fra la stazione e la casa, il giornalista si rese conto che la fanciulla, nonostante i suoi ventitré anni, era più estremista ed integralista di Diego con cui, guarda caso, si erano conosciuti proprio sui banchetti di GreenPeace.

Non acquistava i prodotti delle multinazionali, non indossava abiti di cuoio né scarpe di pelle, faceva spesa nei negozi dell'equo solidale e al supermercato comprava solo i prodotti bio. Beveva l'acqua del sindaco ed era vegetariana.

«Splendida per uscirci a cena», rifletté Radeschi «a patto poi di disfarsi del cadavere gettandolo nel fiume!»

Paolo Roversi, L'uomo della pianura, Mursia 2009, pp. 167-168.

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Un po’ di trucco, vestito provocante, sguardo tentatore. Maria gli si avvicinò con curiosità. Lei, così profumata, morbida.

L’ingenuo non si accorse di nulla. Si fece stendere a terra pregustando con la bava alla bocca chissà quale perversione. Invece Maria tirò fuori da un cumulo di spazzatura un martello, di quelli grossi, da carpentiere, unica eredità del suo ex marito.

Alla tenue luce della luna, con la freddezza di un gladiatore lo centrò in piena fronte. Un solo colpo.

Simonetta Simonoir Santamaria, L’angelo del focolare, in Donne in noir, Il Foglio Letterario 2005, pp. 22-23.

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Sophie si guarda allo specchio, si osserva con gli occhi un po' bassi, quasi a nascondersi da se stessa, con la paura di ritrovare in quegli occhi qualcosa di pauroso, un altro da sé che conosce poco, che la spaventa, che l'ha sempre spaventata… Si volta e da un cassetto di un comodino di legno rossiccio ancorato alla parete estrae la pistola. La studia come se fosse un'immagine sacra o qualcosa del genere. E' una pesante Smith & Wesson a tamburo degli anni quaranta comprata ad Anversa, che chissà quanta gente ha già ucciso, che gliel' ha venduta un suo collega… che le ha raccontato che questa pistola era di un partigiano francese e che aveva ucciso un sacco di fascisti, una bella storia raccontata a bordo della sua chiatta bevendo birra belga e scopando e guardando il porto di Anversa avvolto in una nebbiolina azzurra e tagli di grigio.

Roberto Saporito, Carenze di futuro, Zona Editrice 2009, p. 96.

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Vedo il mio nome nero su un fondo chiaro, illuminato. Percorro scariche elettriche. MELISSA. Tante voci che chiamano il mio nome. Nessuna che mi dia pace. Vedo su di me facce illuminate da una luce vibrante. Chinate su di me. Tanti occhi. Come se mi guardassero alieni, sgomenti. Come se mi leggessero, ecco sì, è più che osservare. E' leggermi. Nutrirsi di me.

Mauro Smocovich, Nella nebbia, in Bad Prisma, epix Mondadori 2009, pp. 183-184.

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È una donna tonda, bassetta e vestita a fiori, con due piedini

grassi strizzati in scarpe coi tacchi. Ha gli occhi vispi come quelli di una volpe e i capelli bianchi di quel colore biondo-rosa tipico delle casalinghe ultrasessantenni.

Strumm, Diario Pulp, Edizioni XII 2009, p. 69.

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E c'era una donna stupenda, con lunghi capelli rossi e la pelle di cera che fotografava le mie sofferenze senza interrompersi mai, con il ronzio incessante del motorino di avvolgimento.

Alda Teodorani, Giù, nel delirio, Granata Press, Bologna, 1991 pagina 12.

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Liliana Grignani scese rivelando i tratti etnici della guidatrice di SUV. Passo svelto e sguardo fiero, tailleur blu con foulard Chanel, borsa Gucci, scarpe con tacco da equilibrista, ori alle mani, ai polsi, al collo. Le extension erano perfette e i capelli scendevano dritti e neri sulla schiena a squadrare un viso dall’abbronzatura profonda. Il naso era piccolo, frutto forse di una plastica precoce e sopra vi saettavano occhi fulminei cerchiati di nero. Doveva avere poco più di trent’anni, il corpo asciutto da palestra, imperniato su un seno enorme, sospeso nell’aria come un capolavoro di ingegneria meccanica.

Roberto Valentini, Nero Balsamico, Todaro editore 2005, pag.68. 

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«Non permetterei mai che a una bella signora come lei tocchi un compleanno così triste. Permette che la inviti a cena?»

Giovanna rimase a bocca aperta. Davvero poteva ancora interessare a un uomo? Urgeva prendere rapidamente una decisione. Era padrona del suo tempo e abbastanza grande da saper badare a sé stessa. Non aveva più doveri nei confronti dei suoi figli. Perché dire di no? In fondo era vedova.

Maria Teresa Valle, Vedove, in All'improvviso, nella città delle donne, Ed. Laboratorio Gutemberg, 2009, p. 190.

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Non hai ancora imparato che le donne sono più coraggiose? Non se la menano con l’orgoglio e non hanno paura dei sentimenti, per questo sono disposte a rischiare.

Valerio Varesi, Il commissario Soneri e la mano di Dio, Frassinelli 2009, p. 156.

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In quel momento apparve Marina. La prima cosa che vidi furono i suoi occhi. Grandi e infelici, neri come non ne avevo mai visti, incastrati con forza in un viso per certi versi delicato. Aveva i capelli neri e lunghi, legati in una coda laterale. La donna più bella che avessi mai visto.

Marco Vichi, Donne donne, Guanda, 2000, Nuova edizione 2008.

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Uno scricciolo in bianco e nero. Bianca la pelle e neri i capelli. Biancaneve insomma. Così mi chiamava mia madre e mi diceva che se fossimo riuscite a far crescere i miei capelli fino alla schiena sarei diventata bellissima. Ma i miei capelli sono troppo fini, si spezzano subito: non sono mai riuscita a farli crescere.

Marina Visentin, Biancaneve, Todaro Editore 2010, p. 7.

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Da quando ero piccola, ogni volta che le capitavo a tiro, Anna mi ripeteva fino allo stordimento: «Guai a te se mi fai dei nipotini, perché io mi sono già rotta le scatole abbastanza con voi, spine nel sedere che non siete altro, che non ne posso più! Capito? Non vedo l’ora di fare le crociere della terza età, tipo Love Boat, hai presente? Senza nessuno di voi tra i piedi.»

Vittoria A., Dannati Danni, Eclissi  Editrice 2009, p. 83.

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Esce dalla doccia e si asciuga frettolosamente con l’accappatoio. Anche i capelli li tampona senza perdere tempo a metterli in piega. Appena sente che l’umidità è sparita sotto l’aria calda del phon, li spazzola e li lega con un grande elastico di spugna. Sono così ricci i suoi capelli, che è inutile tentare di domarli. Adriana non si è mai vista nuda. Si vergogna. Anzi quando era giovane si vergognava ancora di più, ora qualche volta ha provato a sbirciarsi e i solchi sul viso, la pelle sotto le braccia che diventa un tutt’uno con il seno, la fanno sentire vecchia. Lega i capelli e con l’asciugamano ancora addosso corre in camera sua a piedi scalzi.

Si veste.

Cristina Zagaria, Perchè no, Perdisa Pop 2009,pp 32-33.

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Strano, dico a me, sto per morire e penso mia nonna.

Guardo mio amore che muore anche lui, e penso ancora mia nonna, e poi sento come luce grande che illumina dentro mia testa e vede chiaro tutta mia vita. Penso che colpa di mia nonna che io è qui, colpa di stupida vecchia, colpa di stupide storie che messo in mia giovane testa, stupide come quella di principe azzurro che cerca me in tutta Russia. Se io non ascolta, adesso ha sposo kazako, piccolo pezzo di terra, animali, casa e forse figli, e io bella donna bionda persa in buco di culo di mondo, forse che triste, ma viva.

   Non so perchè ma pensa a giovani puttane russe e sente invidia: loro non aspetta niente di nessuno, sa che ha niente più di stessa vita, e tiene solo piccola speranza di tornare a casa con soldi, ma nessuna con stupida speranza di principe azzurro, neppure più bella ragazza. Aaaaaaaaahh! Mia nonna sbaglia e mio padre andato dietro, e con lui tutta familia. Io unica che può avere speranze, diceva. Stupido uomo!

Ora so che meglio niente speranze, meglio vivere vita nuda perché speranze mangiano tua vita mentre aspetti, e distruggono te quando finite.

   Guardo in mezzo a mio sangue sul pavimento e penso ecco dove mie speranze, e Lello ora ucciderà me. A meno che Dmitri arriva e salva.

   Ecco, altra stupida speranza.

Alessandro Zannoni, Biondo 901, perdisa pop, pp. 69-70.

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Quindi adesso me ne sto qui, acquattata, in silenzio, a sentire degli stronzi che discutono della mia morte, e se farla precedere o meno da uno stupro.

Aspetto che qualcuno dica la frase fatidica.

«Guarda, a me solo l’idea di farmi una lesbica me lo fa diventare duro.»

Risate.

Lo so cosa pensate.

Non ha senso che Mantis, la superkiller, si metta a sparare come una matta invece di pensare agli affari. Un contratto è un contratto, va rispettato, stronzate così.

Ma Mantis è solo un nome tatuato sul nulla.

Giovanni Zucca, Mantis, in Stefano Di Marino, Montecristo/1 - Un uomo da abbattere, Giallo Mondadori n. 6, 22/02/08, p. 299.