Il tuo romanzo “Racconto d'inverno”  (raccontodinverno.it) sta riscuotendo molto successo. É andato in ristampa senza aver avuto promozioni particolari, se si eccettua l'inserimento d’obbligo nel catalogo Marietti, ha suscitato molte discussioni estremamente positive su anobii (anobii.com/), ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti quali il secondo posto al Premio Carver, l'ammissione tra i primi dieci del Premio Città di Siderno e attende l'esito del Premio Nabokov, come uno dei cinque finalisti oltre ad essere stato scelto dai lettori del Sole 24 Ore come uno dei dieci libri più gettonati dell’anno (ilsole24ore.com). Ti aspettavi questo successo?

Indubbiamente no. Ad essere sincero ho iniziato a scrivere Racconto d’inverno reduce da un vero e proprio fallimento sul progetto originario, cioè musicare Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Solo allora, infatti, ho capito che avrei dovuto scrivere io il romanzo partendo proprio dal testo landolfiano. Seguendo un’esigenza di musicalità a cui dovevo rispondere, un bisogno cioè di dare fondo a un’urgenza di tipo ritmico e musicale. D’altronde è questo il mio rapporto con la parola. La parola per me segue un senso e un sentimento fondamentalmente musicale. E la trama diventa da questo punto di vista un contrappunto ritmico, un contesto di misure e proporzioni da rispettare nei suoi rapporti interni. I personaggi stessi agendo nei termini di questo “paesaggio armonico”.

Così che non potevo immaginare alcun tipo di successo con una scrittura tanto diversa e contro tendenza. Fatto che dimostra due cose essenziali: quanto poco si possa prevedere dell’esito di un libro e quanto sia limitato il nostro approccio sull’argomento.

Il libro non si può certo catalogare come romanzo di genere o romanzo commerciale. Premesso questo, stupisce la quantità esorbitante di lettori tanto più in un paese in cui, come gli editori stessi lamentano, si legge poco. Esiste dunque una fascia consistente di lettori esigenti, lettori che eludono le strategie editoriali di marketing?

È la lezione che dovremmo imparare visto che con ogni evidenza non riusciamo a capire molto della realtà sociale e culturale di questo paese. C’è una verità più profonda delle teorie che spesso andiamo ripetendoci sull’effettivo degrado del nostro presente e sulle sorti del nostro futuro. L’uomo ci stupisce, perché c’è un aspetto profondo che sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione. È l’elemento umano, sempre sorprendente, a salvare. Accade così che un libro come Racconto d’inverno, pur essendo “marginale” all’interno dell’industria culturale, sia oggetto di attenzione e ottenga un riscontro tutt’altro che prevedibile. I lettori esigenti ci sono, dunque, e sono molti; e spesso si indirizzano sui ‘classici’ per sfiducia dopo aver patito mille delusioni.

Com’è il rapporto con chi ti segue? Ti sei fatto un’idea della/e tipologia/e di lettori?

Dalle molte mail che ricevo (e mi scuso con tutti quelli cui non ho potuto rispondere solo per motivi di tempo) mi sono fatto l’idea che i lettori di Racconto d’inverno siano i più disparati.

Ma prevalgono coloro i quali testimoniano un interesse appassionato e disinteressato per il libro come oggetto di ricerca personale. Lettori, cioè, avvertiti, ma non di tendenza. Liberi cioè da particolari schemi o, comunque, alieni da tentativi di scrittura, come spesso accade invece di incontrare tra gli appassionati del settore. Lettori puri, insomma, una categoria che sembrerebbe in via di estinzione ma che in realtà è particolarmente nutrita.

Hai dichiarato di averlo scritto per “una necessità fisiologica”: all'inizio il tuo intento era semplicemente quello di musicare “Racconto d'autunno” di Tommaso Landolfi, ma non riuscendoci ti sei convinto di dover riscrivere il romanzo a partire dall'incipit landolfiano. Ci spieghi meglio il rapporto tra necessità ed arte?

L’arte o è necessaria o non è. E la necessità dell’arte equivale in ugual modo alla sua inutilità. Tanto inutile quanto necessaria, quindi. Finalità esterne all’atto creativo provocano corruzione e morte precoce dell’opera. Lo scrittore ha di fronte un compito gravoso ma è aiutato dal bisogno intrinseco di esprimere il suo mondo, il mondo che lo abita, per dir meglio. Un mondo che è suo solo per il tempo necessario ad ospitarlo dentro di sé. Dopodiché se ne libera una volta per tutte con la pubblicazione perdendo ogni rapporto privilegiato con l’opera. A quel punto è uno tra i tanti che possono intervenire intorno al testo, ma sempre da posizione esterna.

Qual è lo shining di “Racconto d'autunno” di Tommaso Landolfi?

La casa-coscienza, direi, quell’opprimente e materno luogo di incrocio in cui prendono vita le mille domande sull’essere. E l’ambiguità del reale, con le sue mille sfaccettature.

Quanto è durato il lavoro di revisione del tuo “Racconto d’inverno”?

Ho finito di scrivere la prima redazione nell’estate del 2007. Dopodiché una seconda versione più lunga è stata terminata solo l’anno seguente. Un anno ancora, dunque. Ma le revisioni e le riscritture si sono susseguite perché non riesco mai a lasciare un testo se non quando è definitivamente pubblicato. A febbraio lavoravo ancora di lima mentre correggevo le bozze. Non si tratta di un’esigenza di perfezione, forse del timore di abbandonare il testo, del bisogno di continua ricerca sulla lingua, sulla sintassi. Sono i contesti linguistici, ritmici e musicali, come dicevo, a richiedere in continuazione un assestamento, una ridefinizione.

É stato difficile il passaggio alla pubblicazione?

È stato più facile del previsto. Anche in questo caso i timori di un esordiente che non appartiene a nessun gruppo o consorteria che dir si voglia (scrivo da sempre e compongo con gli ARPIA da ormai venticinque anni, ma non avevo mai pubblicato altro che musica), sono stati fugati in meno di quindici giorni. Giovanni Ungarelli, infatti, Direttore Editoriale della Marietti e già capo in Rizzoli negli anni novanta, mi ha telefonato di persona per propormi la pubblicazione. Ho ricevuto anche offerte da altre case editrici, ma alla fine ho optato per la Marietti soprattutto per la fiducia e la qualità umana di Ungarelli. Sempre con la Marietti pubblicherò a settembre il mio prossimo romanzo e, lo confesso, mi trovo tanto bene da non sentire alcuna esigenza di inviare ad altri i miei manoscritti. Si è instaurato, con l’editore, un legame di reciproca fiducia. Cosa che mi permette di lavorare con la serenità necessaria.

Ora sei impegnato, insieme ad altri undici scrittori,  in un progetto di grande livello e interesse, una traduzione dell'Antico Testamento. Conosci anche l’antico ebraico? Quale ritieni sarà l’arricchimento intellettuale di un lavoro così impegnativo e profondo?

Cerco di orientarni nell’antico ebraico attraverso i repertori e operando collazioni continue con le Septuaginta greche. È per me un onore collaborare con altri scrittori ben più importanti e famosi in questo progetto editoriale così affascinante; spero di essere all’altezza e non perdere la bussola nel mio lavoro di ricerca. Da questo punto di vista la traduzione del testo biblico opera in me un approfondimento continuo sui materiali di lavoro, costringendomi a misurare sull’essenziale la forma espressiva.

Ci anticipi qualcosa del tuo prossimo romanzo?

Sarà un libro del tutto diverso da Racconto d’inverno. Un romanzo dalle dimensioni più generose, dilatato nella luce quanto l’altro si condensava nel buio e nel silenzio. Una sorta di educazione sentimentale e di variazione sull’infanzia perduta, sulla giovinezza sperata, sulla felicità dell’essere. Felicità obliqua, mai scontata, a tratti disperata. Felicità senza motivo e perciò stesso felicità più potente.

Scrivi da sempre ma nasci come musicista. Del tuo gruppo, gli Arpia, è la suite musicale di Racconto d'inverno (arpia.info), uscita in Francia. Ci spieghi questa compenetrazione tra musica e parola?

Musica e parola sono per me indivisibili. Non ce la faccio proprio a separarle. Ed è in questo flusso pre-razionale che sento agitarsi il nucleo più profondo del mio bisogno espressivo. C’è una semplicità, in questo nucleo, a dispetto delle difficoltà formali che la mia scrittura impone al lettore. Esiste una musica della parola, insomma, che rappresenta la materia più viva su cui far reagire ogni esperienza creativa. Ed è un linguaggio più diretto e universale. Possiede una grammatica identica più o meno a tutte le latitudini. Un linguaggio pre-razionale ed emotivo e, in certi casi, sentimentale.

Ora, imporre gli aspetti “musicali” della parola, appare oggi operazione tanto necessaria quanto sovversiva. Viviamo tempi di cinesizzazione letteraria, di non-luoghi, di omologazione. È la letteratura del non-luogo ad avere il sopravvento su ogni tentativo di libertà espressiva. Ma è inutile. La parola è musica, e negare questo aspetto non produce che fallimenti estetici. Nella parola, infatti, l’elemento significante assume un’importanza del tutto particolare dal punto di vista melodico e ritmico. Non è un caso che sin dall’antichità la poesia fosse cantata, che i poeti usassero accompagnarsi con strumenti musicali. Eppure la parola esprime anche l’anima razionale, il senso più che il significato. È una porta e al tempo stesso una chiave di interpretazione del mondo fatta dai sensi di cui è composta.

Ci racconti qualcosa del tuo gruppo? Quando e come nasce, dove suona...

Gli Arpia nascono venticinque anni fa, circa. Nel 1984, ad essere precisi. La formazione iniziale era di tre elementi, influenzata dalla cultura rock e progressiva tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Una vita di musica, quindi, che ha prodotto alcuni dischi, di cui l’ultimo, appunto, è il sogno stesso del libro; e una vita di musica suonata, nei teatri, nei locali, nei festival. Un’esperienza straordinaria in cui la creatività ha assunto dimensione collettiva, di gruppo. Suonare insieme vuol dire condividere attraverso il corpo, gli strumenti suonati, una vibrazione e un’energia misteriosi. La musica ti attraversa, non ha luogo se non attraversandoti. Non c’è dubbio, è il luogo della musica il più misterioso.

Ci saluti con una citazione in musica tratta dalla suite musicale di “Racconto d'inverno”?

Amore mio,

non hai colpa ché tu non lo sai:

nessuno muore mai.

La morte non siede

dentro al cerchio d’immortalità,

morte non fa paura.

Se mi segui

segnerò la tua strada

nella tua mano