L'isola di Wight

Nel quartiere, al Prenestino, mi chiamano "Avanzo".

So bene che non è un gran che, e che altri, al mio posto, la renderebbero male. Eppure lascio perdere. Ho l’aspetto di una bistecca troppo cotta lasciata nel piatto. Come soprannome ha decisamente senso.

Acido solforico.

Si trova facilmente in giro, e se hai abbastanza coraggio da farne uso è un’arma incredibilmente efficace per procurare sofferenze. Incolore, inodore. Quando Hakim me l’ha gettato in faccia, un anno fa, ho sentito solo la puzza dei tessuti che bruciavano, e visto il sangue fumare come uscisse dalle vene di satana.

Poi il dolore. Indicibile, inimmaginabile. Non perderò tempo a spiegarvelo. È invece del mio naso che voglio parlarvi. Di come sia scomparso lasciando due buchi neri simili a fori di proiettile; delle mie labbra, ridotte e ricci di pelle che tengono esposti i denti quasi sorridessi dalla mattina alla sera, invece di stare di merda. E infine degli occhi. Di quello che ho perso, il destro, e del sinistro, soprattutto. Lui che è ancora intero e che stasera mi aiuterà a far giustizia.

Il sig. Luca Rei è un vecchio e ricco grassone che vive a via Cortina.

Il suo appartamento ha più stanze di quante possiate contarne in dieci abitazioni di periferia, e nella sua camera da letto si potrebbe vivere stando schifosamente larghi se ci fossero angolo cucina e cesso.

La camera da letto. Era là che trascorrevamo la maggior parte del tempo.

Non ho mai amato lavorare, e il vecchio mi manteneva con premura fornendomi alloggio, se mi lasciavo inculare quando ne aveva voglia.

Non sono gay, badate. E se anche lo fossi stato mi sarei tenuto alla larga da un uomo tanto brutto.

Ma era un affare. Valeva la pena sacrificarsi per tutti gli agi di cui disponevo, e il sig. Luca non si risentiva se correvo ogni tanto a dare di stomaco in bagno.

L’importante, era aprire la doccia. Per coprire i rumori. Quelli lui non li sopportava.

Avrei continuato a far marchette se non fosse arrivato Hakim. Immigrato da non so quale paese in guerra, è un ragazzone di due metri che sopravviveva facendo il lavavetri ai semafori di S.Giovanni.

É così che ha conosciuto il sig. Luca.

Pulendogli il parabrezza.

Poco tempo più tardi mi sono ritrovato senza un tetto sulla testa; un mese dopo Hakim mi ha dimostrato quanto non gradisse le mie continue intromissioni sciogliendomi i connotati.

La bella vita fa gola a parecchi. E alcuni di essi ci mettono un niente a diventare mostri. Li ho visti uscire per andare al cinema, come sempre di mercoledì.

Tra poco torneranno.

Li aspetto appoggiato a un muro, con la strada ingiallita dai lampioni che mi scorre davanti come una lunga pisciata di cane.

Non c’è un’anima. Di giorno, le auto percorrono via Cortina stando appiccicate per i paraurti tanto è il traffico, ma superata la mezzanotte le uniche macchine che vedi sono quelle parcheggiate a spina.

Il sig. Luca ha una BMW grigia. La riconosco subito, appena la vedo col mio solo occhio.

Sta avvicinandosi lentamente, spargendo dai finestrini evidentemente abbassati le note del solito pezzo dei Dik Dik che a me ricorda pasti caldi, regali costosi, sudore, sperma e vomito.

Mi stacco dal muro, inizio a camminare verso il cancello per il garage privato davanti a cui la BMW

si andrà a fermare. Nella tasca, stringo le dita attorno al calcio della pistola che ho rimediato alla stazione Termini per due centoni.

Sì, esatto. Una pistola. Sarebbe stata una vendetta gloriosa con l’acido, ma il rancore che mi porto appresso parla da solo: non voglio guardarmi alle spalle per il resto della vita.

La BMW rallenta, si arresta poi di fronte al cancello.

Tra poco sarà finita.

Saranno storie vecchie le nottate in bianco in ospedale e gli interminabili interrogatori della polizia, poco convinta che ad aggredirmi fosse stato uno sconosciuto.

Ucciderò il sig. Luca e Hakim, e tornerò a casa a riposare prima del lavoro.

Sono un operatore telefonico, sapete?

Attraverso il cavo sono ancora il bel ragazzo di prima.