Il buio e la notte

Devo uccidere il mio capo. È un bastardo. Mentre scendo le scale del palazzone di via Tiburtina penso e ripenso. Mi avvolge il nero della notte. Quella notte incombente della periferia di Roma che mi fa sentire la ferita nella carne. Anche nel cervello. Nel piazzale funzionano solo due lampioni. Il paesaggio che ondeggia sotto l'alternanza di buio e luce è fatto di cemento e fabbriche. Punge l’umore di quelli che ci lavorano. Anche il mio. Soprattutto il mio. Voglio piangere.

Il bastardo mi ha detto che non diventerò responsabile. Ha scelto un’altra persona. Un cretino. Io lavoro anche la notte. Lavoro anche da casa. E quel cretino viene promosso. Prenderà l’auto aziendale mentre io ho una Fiesta con 150.000 chilometri che ogni sera mi fa penare per partire. Nel piazzale sono solo. Il cretino sarà già a festeggiare. Questa sera la mia unica fortuna è che non ci sono gli zingari che frugano nella spazzatura. Quando mi vedono, sembra che valutino se continuare a frugare o rapinarmi. Mi espongo a questi rischi uscendo tardi ogni sera. E un cretino viene promosso. Voglio uccidere il mio capo. Prima gli sbatto le mie dimissioni in faccia. Voglio vedere la sua espressione.

20:44 sull’orologio. La macchina riesce a partire. Prendo il raccordo. Anche questa sera non passerò al supermercato. Mi sembra già di sentire le urla di mia moglie: “Devo stare a casa con il bambino. Io! Tutto il giorno. Avevi promesso che ci saresti andato!”. È una battaglia persa se spero in un po’ di comprensione. Nessuna pietà per me, neanche a casa. Speravo di annunciare il mio avanzamento. Ma è stato promosso quel cretino. Devo uccidere il mio capo e farlo soffrire

Il raccordo è in piena. In “rosso” come dice il sito del traffico. Questa sera proprio no, non ci voleva. Ho sete. Non ho acqua. Il mio capo deve morire. Faccio sobbalzare l’auto per evitare un matto che mi taglia la strada. Il cacciavite che ho sul cruscotto sbatte sul vetro. Il colpo secco mi attiva un click nel cervello e agisco di clacson. Lui mi guarda nello specchietto e urla. È il massimo, in questa città anche chi sa di aver torto pretende di avere ragione. Accendo gli abbaglianti. Voglio squagliarli l’auto. Lui sfoggia il dito medio. Mi affianco e urlo tutto quello che ho in pancia. Nei suoi occhi vedo la sorpresa. Nel suo viso l’espressione di un uomo al cospetto di un indemoniato. Non me ne frega niente di come appaio. Se reagisce, uccido anche lui. Abbassa gli occhi e alza il braccio in segno di scusa. Si fa superare. Penso e ripenso alla mia vita. Al bastardo, al cretino, agli zingari. A mia moglie e al traffico. Al cacciavite. Ho tanta sete. Vorrei andarmene. Riniziare. Il mio capo morirà e urlerà di dolore. Sono arrivato sotto casa. Vedo un parcheggio vuoto e spero che questo sia un segnale di svolta. Forse tutto può prendere una luce diversa. Vedo una macchina che arriva da lontano. Le luci mi accecano. Si infila nel parcheggio che ho puntato. Mentre l’auto sfilava davanti ricordo solo di aver visto i miei fari illuminare due bambini nei sedili posteriori.

Mi esplode in testa un urlo di rabbia e si interrompe tutto il resto. Vedo tutto nero. Silenzio. Nient’altro. Non so quanto è passato. Riparte la vista. Ho il cacciavite in mano. È insanguinato. Anche io sono sporco di sangue. Guardo per terra. Sotto di me c'è un uomo raggomitolato. Ha due ferite al petto. Un fiume di sangue si spinge nel tombino. Riguardo il cacciavite, fisso l’uomo. Si accende l’udito. Sento confusione. Dei bambini urlano. Una donna mi grida in faccia “assassino”. Tiene in braccio i due bambini. Sono i bambini che ho visto prima. Guardo lontano e vedo i lampeggianti della polizia. Mi sembra strana questa città. Il buio avvolge tutto. Avvolge tutti. Senza pietà. Prendo il cacciavite e lo appoggio sulla mia gola. Sorrido. Capisco che è l’unico modo per risolvere tutto. La donna urla sempre di più. È l’ultima cosa che vedo. Dopo mi faccio avvolgere dal buio per l’ultima volta. Questa città mi ha ucciso.