Se l'avessi amata meno non mi sarebbe venuto in mente di ucciderla. Che dico? Mi s'era conficcata in testa quest'idea. Idea fissa, martellante compulsione.

Da qualunque angolatura la vedessi: davanti, di dietro, dai lati destro e sinistro e di sopra. Ero diventato un'enfia mongolfiera di veleno. Geloso, invidioso.

Lei era circonfusa d'una bellezza senza fiato, e per questo spasimavo d'ucciderla.

Possedeva un'intelligenza superiore, anche se del tipo silente: per capirlo, bastava incrociarne lo sguardo. Anche perché, se ci penso oggi, non l'ho mai sentita parlare.

Come se non bastasse incedeva in due modi distinti, ambedue affascinanti e che le invidiavo con ferocia, visto che sono piccolo e storpio. Quello centripeto del fascino dell'anoressica, tipo Twiggy. Quello centrifugo dell'avanzante ancheggiare di Jessica Rabbitt.

Insopportabile perfezione. Dovevo ucciderla. Ucciderla. Ucciderla.

Ma non potevo perché era solo una creatura di un videogioco, ben fissata nella mia mente.

Mi dovetti accontentare d'uccidere la mia portiera, sgorbio perpetuamente arrancante per le scale. Con una martellata sferrata dall'angolo buio del pianerottolo.

Certo il colorito verdognolo della faccia, la gonna marrone e il golfino nero (antiestetico abbinamento!) non rendevano giustizia al bisogno assoluto della vendetta.

Ma anche nell'uccidere bisogna sapersi contentare.