In effetti mi ero mosso con una certa ingenuità.

E pensare che mi ero complimentato con me stesso per aver avuto l’accortezza di mettermi dei guanti da cucina per non lasciare tracce.

Invece… Innanzi tutto, mentre aspettavo Simone col coltello in mano, nascosto nell’ingresso della sua villetta, non avrei dovuto usare il suo telefono fisso per chiamare mamma a casa e chiederle come stava. D’altronde io non ho un cellulare. Rispose la segreteria telefonica: mamma evidentemente stava meglio ed era uscita a comprare qualcosa. Non lasciai alcun messaggio e riattaccai.

Avrei poi dovuto accorgermi che mentre pugnalavo Simone alcuni dei miei biglietti da visita mi erano caduti dalla tasca del giaccone. Non che questa fosse una gran perdita: erano di quei biglietti da poco che si compongono e si stampano in due minuti con quelle macchine automatiche che si trovano alle stazioni. Pochi euro ed ecco che cento biglietti sono pronti. Sui miei avevo scritto: CHIARI ANDREA, e quindi aggiunto in blu, che è più elegante, UN IMBIANCHINO SOPRAFINO, e poi indirizzo e numero di telefono della bottega. Il guaio è che c’era un errore. Il mio amico poliziotto, anzi: sergente, Donato Gheri, quando ero andato a farglieli vedere subito dopo averli stampati, mi aveva spiegato che sopraffino si scrive con due effe. Quindi i biglietti non li avevo dati a nessuno e li avevo gettati quasi tutti nel fosso, a parte quei pochi che casualmente mi erano rimasti nella tasca del giubbotto e che persi tutti a casa di Simone.

Il più grande errore era stato però quello di lasciare il mio bel coltello infilzato nello stomaco di Simone. Il fatto è che in mezzo a tutto quel sangue mi ero un po’ confuso e l’avevo così affondato che lì per lì non mi è riuscito subito di ritrovarlo. Ora, a parte che avevo inciso sul manico il mio nome, quel coltello lo conoscevano tutti in paese. Era una baionetta americana con una lama sottile ed elegante, utilizzabile anche come coltello da lancio. Ne andavo proprio fiero. Giusto il giorno prima dell’omicidio ero andato con Simone e Donato a fare alcuni lanci contro gli alberi del bosco. In teoria non l’avrei potuto portare a giro un coltello così, ma il mio amico sergente è anche lui un appassionato di lame e ha sempre chiuso un occhio. Era stato un bellissimo pomeriggio passato a lanciare coltelli e a prendere in giro il Gheri per il fatto che a Simone piaceva Martina, la fidanzata del sergente e se lui non fosse stato attento gliel’avrebbe soffiata. Martina l’amo anch’io ma questo nessuno lo ha mai saputo.

 

- È chiaro ed evidente - disse il mio avvocato guardando i giudici negli occhi - qual è il reale significato di tutta questa ridondanza di apparenti indizi: la telefonata intercorsa tra l’abitazione della vittima e quella del mio assistito, quando ancora la vittima non era rientrata a casa; i biglietti da visita, lasciati in bella mostra sul luogo del delitto; il coltello certamente appartenente al mio assistito. Bene: è chiaro che tutto ciò non può essere altro che un plateale tentativo del vero colpevole di incastrare il mio cliente. È questo, in realtà, un tentativo grossolano; direi, di più: sembra un tentativo posto in essere da un deficiente.

Pensavo che a questo punto la giuria l’avrebbe spernacchiato, invece vidi che i giudici continuavano a seguirlo con attenzione.

Il mio avvocato è un avvocatone di quelli che vanno in televisione. Non mi sarei mai potuto permettere di pagare neanche una mezzora del suo tempo, ma mi difende perché dice che con un caso come il mio si farà un mucchio di pubblicità. Sono stato proprio fortunato ad uccidere Simone in quel modo.

L’avvocatone fece una lunga pausa e poi proseguì:

- La telefonata. La famosa telefonata, può averla fatta chiunque. Sulla segreteria di casa del mio assistito non è stato registrato alcun messaggio. È che motivo avrebbe avuto il mio cliente di chiamare la propria casa? … Il Pubblico Ministero insinua che l’accusato volesse salutare la mamma. Ma si è mai visto un omicida che prima di colpire chiami la mamma per farle un salutino? E poi la signora era fuori casa e il mio cliente ben lo sapeva e non aveva dunque alcun motivo per telefonarle.

 

I giudici continuavano ad ascoltare l’avvocato. C’erano anche moltissimi giornalisti perché quell’omicidio era stato tanto in televisione. Lui proseguì, dopo una bella pausa a effetto.

- Passiamo ai biglietti da visita… Quei biglietti da visita potrebbe averli stampati chiunque. Anzi, per essere precisi, li ha stampati un ignorante che ha scritto sopraffino con una sola effe. Se i biglietti li avesse stampati il mio cliente certo li avrebbe distribuiti in giro nel corso della sua attività professionale e durante le indagini la polizia li avrebbe rintracciati. Oppure il mio cliente avrebbe avuto con se i biglietti residui. Invece… invece i biglietti sono stati ritrovati tutti in un fosso, poco lontano dalla casa della vittima. Evidentemente l’assassino, dopo averne lasciati a bella posta cinque sul luogo del delitto, si è disfatto così dei rimanenti che avrebbero potuto comprometterlo.

 

Il Presidente della giuria annuì con la testa, mentre il Pubblico Ministero alzava gli occhi al cielo.

 

L’avvocatone continuò:

- Parlerò del coltello alla fine. Esaminiamo ora la questione dell’alibi. L’accusa dice che il mio assistito non ha un alibi. E allora? Da quando in qua non avere un alibi è un reato? Anzi, se devo dirla tutta, io personalmente diffido di quegli alibi così perfetti da sembrare costruiti a tavolino, che poi spesso lo sono davvero. Qui almeno non c’è bisogno di arbitrari calcoli dei tempi di percorrenza o di sempre incerti interrogatori di testimoni. Il pomeriggio in cui Simone venne ucciso il mio cliente era a passeggiare nel bosco e non ha incontrato nessuno che potesse confermare ciò. Certamente un colpevole avrebbe saputo inventarsi qualcosa di meglio, non vi pare? Questa della passeggiata nel bosco è stata l’unica dichiarazione resa dal mio cliente prima di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Il Pubblico Ministero sbuffò e allargò le braccia rivolto verso la giuria.

- Ah! - riprese il mio avvocato - ora il Pubblico Ministero contesta anche il fatto che il mio assistito si sia rifiutato di rispondere a qualsiasi ulteriore domanda; ma lo sa il rappresentante dell’accusa che questo è un diritto garantito dalla legge?

- Via! - fece il Pubblico Ministero - fosse stato innocente avrebbe cercato di chiarire la sua posizione.

- Figuriamoci! - replicò indispettito il legale - di fronte a un atteggiamento così chiaramente persecutorio, preconcetto e teso a indurlo in contraddizione a ogni costo, bene ha fatto il mio cliente a rifiutarsi di collaborare a questo gioco al massacro… Un ingiustificato massacro giudiziario e mediatico!

 

In effetti l’avvocatone si era complimentato parecchio con me per questa scelta di rimaner muto per giorni e giorni.

- In una situazione come la tua - mi disse - una sola parola sbagliata sarebbe bastata a farti perdere ogni speranza di salvezza.

In realtà, mi aveva indispettito il modo in cui il sergente Gheri, che io credevo un amico, aveva  iniziato a interrogarmi, subito dopo avermi arrestato. Appena avevo accennato alla passeggiata nel bosco lui mi aveva detto: - senti, bello, smettila di sparare stronzate! - Beh; io smisi.

L’avvocato continuò:

- E io chiedo al Pubblico Ministero: ma il movente? Quale motivo avrebbe avuto il mio cliente per uccidere il povero Simone?

E qui, in effetti, il rappresentante dell’accusa era stato un po’ vago nella sua requisitoria. Aveva ipotizzato questioni di denaro o di donne che, obbiettivamente, non stavano proprio in piedi. Tutti in paese sanno che dei soldi non mi importa niente e che non ho mai avuto fidanzate. Si era visto benissimo che il Pubblico Ministero si stava arrampicando sugli specchi perché non aveva la minima idea del movente e su questo punto il mio legale si gettò a capofitto insistendo per cinque minuti buoni. L’avvocatone mi aveva spiegato che una accusa senza movente è debolissima. Il Pubblico Ministero aveva anche provato a dire che ero un po’ scemo, ma la perizia psichiatrica aveva stabilito che, sì, non ero un’aquila, ma certo ero sano di mente. 

A questo punto, mentre il mio avvocato continuava a parlare del movente, mi annoiai e iniziai a non seguirlo più. Guardai il pubblico in aula. In prima fila c’era il sergente Claudio Gheri, che non sapevo se era ancora mio amico.

Ripensai al motivo per cui ero andato a uccidere Simone, quella mattina. 

Alla fine del pomeriggio del giorno prima, dopo che si era finito di lanciare i coltelli, il sergente se n’era andato perché doveva entrare in servizio. Rimanemmo nel bosco ancora un po’, io e Simone, e lui era tutto allegro. Gli chiesi come mai e lui all’inizio non volle dirmi nulla ma vedevo che aveva voglia di parlarmi di qualcosa. Alla fine non resistette e iniziò a vantarsi del fatto che aveva fissato un appuntamento nel bosco, alla quercia grande, con Martina, la donna del sergente. Lei sarebbe venuta tra venti minuti. Era sicuro che sarebbe riuscito a convincerla a fare l’amore.

Io non ci volevo credere che Martina avrebbe fatto una cosa del genere. La conoscevo da quando eravamo bambini e lei era una brava ragazza, anche religiosa. Io c’ero stato male quando si era fidanzata con Claudio ma capivo che era stata una cosa giusta: il sergente era tanto migliore di me. Ma ora Simone cosa c’entrava?

Dissi che non era vero niente e che se Martina fosse venuta nel bosco lo avrebbe fatto solo per parlargli e dirgli di lasciarla in pace. Simone mi guardava strafottente, sembrava che ci godesse a vedermi così sconvolto. Disse: – scommettiamo che me la farò.

Allora scommettemmo una cosa preziosa: i nostri coltelli. La mia baionetta americana contro il suo coltello friulano.

Mi fece nascondere vicino alla quercia grande. La ragazza del mio amico sergente venne e per un po’ fui contento perché parlavano soltanto. Poi si avvicinarono e capii che stavo per salutare il mio coltello. Corsi via quando vidi che lei stava slacciando la cintura di Simone.

Vagai a lungo nel bosco, quella sera, e piangevo perché avevo perso Martina e la mia baionetta.

Tornai a guardare l’avvocatone che aveva finito di parlare della mancanza del movente. Si muoveva proprio come in televisione. Era davvero bello a vedersi.

- E infine parliamo del coltello: non v’è dubbio che quell’attrezzo sia stato di proprietà del mio assistito. Ma io vi chiedo: è forse un reato possedere un coltello da guerra? - Qui il mio difensore si era lasciato trascinare dall’entusiasmo. Il Presidente della giuria fece una smorfia.

- Beh, sì, in effetti è un reato - si corresse il mio legale - ma non è un reato così grave come l’omicidio.

Fece un’altra pausa a effetto. Io gli avevo raccontato tutto. Mi aveva ordinato di non dire una sola parola in tutto il processo. E anche dopo. Ci avrebbe pensato lui.

- Premesso che nessuna persona sana di mente avrebbe lasciato nel corpo della vittima un’arma con inciso il proprio nome, Vi invito a seguire i movimenti di questo famoso coltello. L’ultima volta che il mio cliente ricorda di averlo avuto tra le mani è stata il pomeriggio del giorno che ha preceduto l’omicidio. Quel pomeriggio il mio assistito fece una gara di lancio nel bosco accanto al paese insieme a due persone: il defunto Simone e un altro soggetto che è seduto in questa aula, giusto in prima fila – e indicò il mio amico – il sergente Claudio Gheri: colui che ha scoperto il corpo della vittima e ha effettuato l’arresto del mio cliente.

Claudio guardò l’avvocatone corrucciando la fronte. Lui continuò:

- Dopo quella gara il mio cliente non ricorda di aver più avuto con sé il coltello. In teoria, quindi, l’arma potrebbe essere stata sottratta da Simone stesso, e questo ne giustificherebbe la presenza nell’abitazione della vittima.

Altra pausa ad effetto.

- Ma in teoria, e sempre in teoria perché non spetta alla difesa ricercare i colpevoli ma è nostro compito solo tutelare l’imputato, il coltello potrebbe essere stato sottratto anche dal sergente Gheri. E ricordo alla giuria che dai risultati delle perizie tecniche è emersa in modo chiaro la presenza di capelli del sergente sul luogo del delitto, mentre non è stato rinvenuto alcun DNA appartenente al mio cliente.

- Ma è evidente che il sergente è stato lì quando ha scoperto il delitto – urlò il Pubblico Ministero.

- Può essere, ma se fosse stato lì anche prima? E mi sentirei inoltre di suggerire agli inquirenti di fare delle ricerche di tracce di sangue della vittima sulla divisa e sulle scarpe del Gheri.

- Il sergente ha tentato di soccorrere Simone, si sarà certo sporcato di sangue – disse il Pubblico Ministero, con l’aria incredula e depressa di chi vede tutto il suo lavoro rischiare di andare in fumo.

- E perché, Vi chiederete, io umilmente Vi indico una via diversa da perseguire per giungere alla verità su questo sanguinoso caso? – disse l’avvocatone. Poi puntò il dito verso Claudio, proprio come faceva quando era in televisione, e concluse: - perché Claudio Gheri, a differenza del mio cliente, possedeva un ottimo movente per uccidere: il povero Simone infatti aveva una relazione clandestina con Martina, la fidanzata del sergente!

Tutto il pubblico in aula cominciò a parlare ad alta voce, malgrado gli inviti al silenzio del Presidente, e i giornalisti iniziarono ad affollarsi verso il sergente Claudio Gheri che sedeva pallidissimo in prima fila.

Adesso mi sa che, tra indagini e prime pagine, lo aspetteranno giorni un po’ pesanti.

Ora sono sicuro che non è più mio amico.

 

Sergio Calamandrei vive e lavora a Firenze. Ha scritto il romanzo L'unico peccato, pubblicato da Zona ed. nel 2006, e diversi racconti segnalati in premi letterari o pubblicati in antologie (di cui l'ultima è Ucronie per il terzo millennio, Liberodiscrivere).

Il suo sito è calamandrei.it, a cui si è affiancato un blog, calablog.splinder.com/.

Si ringraziano gli organizzatori di Maremma Mystery per aver concesso la riproduzione di questo racconto, segnalato nell'edizione 2007.