Il sole mi ferisce gli occhi. Sciabolate di luce. Rasoi roventi.

L’aria è calda. Il cielo limpido e profondo. Azzurro, come il mare che si profila all’orizzonte. Distante e pacato. Mobile. Si allunga verso l’alto, come un piano inclinato.

Sistemo gli occhiali scuri. Il gomito fuori dal finestrino. Mastico una gomma di quelle che fanno la pubblicità in televisione. Quella del cane che bacia il ragazzo al suo primo appuntamento. Buona, e forte. Balsamica. Cancella il gusto bruciato del caffè che abbiamo bevuto prima al bar.

È una giornata serena e silenziosa. Di quelle che preferirei essere da ogni parte fuorché al lavoro. A correre, in piscina a nuotare, e poi la sera in un pub, a bere birra ghiacciata.

Invece sono al lavoro. Mi tocca.

- … si può sapere cosa dobbiamo fare? - Mi chiede.

- Niente di particolare, dobbiamo notificare un biglietto d’invito al preposto della banca.

- Perché?

- Non so, non ho letto il provvedimento del giudice, a dire il vero. Credo che sia un invito per una ricognizione personale, sai, per quel discorso delle rapine.

- Quali, ero in ferie, non ne so niente.

- Il discorso è questo: nell’ultimo mese hanno preso di mira quest’agenzia dove stiamo andando, mi segui?

- Eh!

- Oh! In pratica hanno fatto una rapina la settimana.

- Come mai?

- Perché non c’è metal detector, né vigilante.

- Capisco.

- Dal video dell’ultima abbiamo estrapolato alcuni fotogrammi e abbiamo identificato due dei tre rapinatori…

- Capisco, quindi dobbiamo invitare il preposto in ufficio da noi perché faccia il riconoscimento.

- Esatto.

Rimaniamo in silenzio.

Lui guida tutto concentrato. È comico a vedersi, un gigante incastrato tra il tettuccio e il volante della Y 10 grigia di servizio. È alto quasi due metri e pesa almeno 110 chili di muscoli. Dovreste vederlo quando si allena, una cosa impressionante. Quando è in palestra, i culturisti spariscono dalla circolazione per non subire l’affronto di una routine di pettorali tirati su massimali di 170 chili d’acciaio. Fa paura. Nella mala lo chiamano Schwarzenegger perché somiglia all’attore, il mitico Schwarzy. I capelli corti e gli occhi azzurri profondi, mobili. Un vocione da basso, e l’andamento di chi sa il fatto suo. Mi fa ridere: vuole guidare nonostante sia davvero problematico, per uno della sua stazza, ricavare lo spazio necessario per muoversi tra il volante e il sedile. Il fatto è che sostiene che io non sono un bravo autista, e che quando sono io a portare la macchina sta sempre in tensione, perciò preferisce mettersi lui alla guida. A me in fondo sta bene, perché così posso concentrarmi sulle cose da fare. Posso guardarmi intorno, che il nostro è un mestiere che va fatto con la testa e con gli occhi, più che con bicipiti e ormoni. Anche quelli servono, per questo lui è il partner ideale, perché quando scende dall’auto, credetemi, sembra che si allunghi come un metro da muratore. Il mio, invece, è un fisico più normale, uno e ottanta per novanta chili. Pure io ho un trascorso da agonista, lui era un pesista della nazionale, io un discreto mediano di mischia, rugby per intenderci. Siamo una coppia ben affiatata, ci cementa la stessa passione per il lavoro, lo sport e il rimorchio. La sera usciamo insieme, abbiamo preso casa nello stesso palazzo, e ovviamente facciamo gli stessi turni: lavoro,  palestra, e rimorchio, appunto. In ufficio ci chiamano i gemellini.

Siamo amici, insomma.

Stiamo alla Squadra Mobile, Sezione Rapine, sigla radio Siena Monza 22. Polizia di Stato, ovviamente.

- Hai visto che gnocca? – Fa.

- Quale?

- Quella!

- Quella? Ma è una ragazzina!

- Eh! Carne fresca e soda… non quelle frollate che piacciono a te. – Mi prende in giro perché a me intrigano le donne mature… mature, sui trentanni, della mia età insomma. Mentre lui è attratto dalle ventenni. Il fatto è che non trovo punti di incontro con le ventenni, non so di che parlare, non c’è confronto, dico sempre.

- Non dire cazzate, - ribatto, - ti farebbe piacere se una specie di yeti come te facesse apprezzamenti simili su tua sorella?

- Su mia sorella?

- Sì.

Ci pensa su.

- … lo ammazzerei! – Dice serio. Anche se non ha sorelle.

- Allora non rompere, e pensa a guidare.

Guida.

Non c’è neanche traffico, non più di tanto.

- Dov’è la banca? – Chiede.

- Più avanti… guarda, vedi l’insegna di quella farmacia?

- Sì… sì, ho visto.

Prendo l’agenda e preparo il foglio da notificare, controllo che la penna scriva.

- Dove la lascio la macchina?

- Mah… guarda, parcheggia lì, di fronte l’ingresso della banca, così possiamo tenerla d’occhio mentre siamo dentro.

- E se viene il carro attrezzi?

- Lasciamo la paletta sul cruscotto, e poi si capisce che è un’auto della polizia.

- Kappa! – Fa.

Abbiamo qualche difficoltà ad entrare, perché in due non ci passiamo attraverso le porte automatiche, perciò vado prima io e poi lui.

- Il direttore? – Chiedo.

- Glielo chiamo subito, chi devo annunciare? – Mi risponde una cassiera molto carina dai modi gentili.

- Polizia, squadra mobile… - dico, e mostro il tesserino.

Prende il telefono e sorride mentre aspetta che il direttore risponda.

- Roberto?… C’è la polizia per te… - chiude, - un minuto ed è da voi.

- Grazie. – Poggio i fogli da notificare sul bancone, ne passo due a Schwarzy, gli dico, - … facciamo così, che ci spicciamo, due li compili tu e due io, va bene?

- Sì, ma non ho la penna, però.

- Tieni la mia. – Dico, e poi, alla cassiera carina, - mi può prestare una penna, per cortesia?

- Certo, - dice. Mi porge una bic nera con il logo della banca. Una targhetta sul vetro divisore reca il nome della ragazza:

Cassa uno Sig.na Bianco Martina.

- Grazie signorina Bianco.

Sorride. È proprio graziosa. Chissà se ha una storia col direttore. Vorrei dire qualcosa, una battuta, tipo: a me piace il Martini Bianco… ma mi sa che è una stronzata, perciò sto zitto. Giunge il direttore, un tizio allampanato e spelacchiato, l’aria nervosa, stressata. Una faccia di cazzo per intendersi.

- Prego, - dice, - in cosa posso esservi utile?

- Buon giorno, signor...

- Dottor Cavallaro Roberto.

- Dottor Cavallaro, sì, certo. Si tratta di questo, le dobbiamo notificare un invito a recarsi nei nostri uffici, per prendere parte a una ricognizione personale...

- Cosa?

- Una ricognizione, un riconoscimento, per via delle rapine che avete subito.

- Ma io già l’ho dichiarato nel verbale, non ho visto nessuno, voglio dire… non sono in grado di riconoscere nessuno! Perché dovrei venire?!

- Guardi, è necessario che lei ci sia, se non riconosce nessuno, pazienza, se ne torna a casa e basta così. Ma deve venire, questo è un invito formale, e non ottemperarvi costituirebbe reato.

- Pure!

- Già! Mi può favorire un documento, per cortesia?

- Ma guarda tu che storie... – si lamenta, è terrorizzato. Siccome non ho voglia di perdere tempo con lui, faccio un segno a Schwarzy che si dia da fare, così ci spiacciamo.

Mentre siamo chini sul bancone, intenti a notificare il provvedimento, alle nostre spalle, le porte elettriche si aprono con un ronzio.

Scrivo. Scriviamo.

C’è qualcosa che non va. L’aria è strana, tesa. Quasi che il cliente che è appena entrato, avesse portato con sé una folata di vento freddo. Alzo lo sguardo sul direttore e la cassiera: sono pallidi.

Dalle mie spalle una voce adrenalinica esplode:

- Fermi tutti... è una rapina! – Il tono è contratto, le erre arrotondate e trascinate, l’accento marcato.

È come se fosse calato un sipario assurdo. Come una nebbia insulsa e scialba. Non so. Mi sembra di essere finito dentro una specie di telefilm, sì in televisione, sai quelle cose tipo: specchio segreto o scherzi a parte.

Intanto la voce ripete nervosa:

- Fermi tutti! È una rapina!

Be', a questo punto, non so perché, metto la bic con il logo della banca nel taschino della camicia jeans. Mi rivolgo a Schwarzy, che ha l’aria incredula, e gli chiedo:

- Cosa hanno detto?

- Mi è sembrata una cosa tipo: fermi tutti è una rapina...

- Eh! – Dico. E, per maggiore sicurezza, rivolto alla cassiera carina, - hanno detto proprio: è una rapina?

- Sì, - balbetta isterico il dottor Cavallaro. – Fate qualcosa, per favore.

- Allora avevamo capito bene, eh, Schwarzy?

- Già... – fa lui, e scrocchia il collo muovendolo a destra e sinistra, e io so che questo è segno che si sta innervosendo. Tanto più che quello ripete ancora più incaponito:

- Buttana la miseria, non lo avete capito che è una rapina, ah?! Teste di minchia!

E questo è troppo, davvero.

Il movimento che facciamo è fluido, elegante, leggero, come la piroetta al rallentatore di un matador in pieno romanzo alla Hemingway. Come Vincent Vega e Jules Winnfield in Pulp Fiction. Una sequenza perfetta. Come un film appunto.

Le beretta inquadrano due ragazzini con calze da donna in testa e tagliabalsa sguainato manco fosse excalibur in mano a Re Artù.

- Fermi, polizia, stronzi! – Tuona Schwarzy.

- Già, squadra mobile, frocetti, - rincaro io.

- Minchia! – Fanno.

- Sissì, - dico, - sezione rapine... per servirvi.

 

In ufficio non ci voleva credere nessuno. Tutti a gridare e dire:

- Non è possibile, ci state prendendo per il culo!?

 

Invece no.

E la cosa più divertente ancora non era venuta fuori.

- Perciò, - chiedo a quello dei due che ha l’aria più sveglia... o meglio, meno da coglione. – Come ti chiami?

E quello muto.

- Senti, amico del sole, non è che mi devi fare girare le palle però! Perché io non è che posso perdere tempo con te, mi segui?

Fa sì con la testa.

- Allora, sei maggiorenne?

- Sì.

- Bene. Il tuo nome?

- Ca... Campisi Luciano...

- Campisi? Campisi hai detto?

- Uh

- Campisi Luciano... come Campisi Luciano della vicarìa?

- Uh.

- Quel Campisi Luciano, quello che gli dicono Diabolik?

- Seh.

- E che ti viene?

- È mio zio!

- Naa!

- Seh!

- Ma quello è il più grande rapinatore di tutti i tempi! È il migliore, un dio!

- U’ saccio! Che fa non lo so? Lo so!

- E come viene a sapere il modo in cui ti sei fatto fottere, a tuo zio gli viene un infarto, roba che si deve vergognare ad uscire a prendere il caffè al bar! – Interviene Schwarzy che ha l’aria di uno che si sta divertendo un mucchio.

Il fatto è che Campisi Luciano, altrimenti noto con il soprannome Diabolik, oltre a essere un esponente di spicco di una importante famiglia mafiosa, è il più grande rapinatore che ci sia mai stato in città, un artista, sul serio. Una cosa davvero alla Diabolik. Uno che c’ha il gene della rapina iscritto nel DNA. Tutt’altra cosa il nipote, è evidente.

- Ma scusate, non l’avete vista la Y10 nostra davanti la banca, c’aveva pure l’antenna radio e la paletta sul cruscotto! Ma dico io, come si fa?! – E giù risate.

- E no, non l’abbiamo vista... non ci posso pensare, farsi fottere in questa maniera!

- Appena glielo raccontano a tuo zio, lo sai che succede?

- Non mi ci fate pensare! – Dice sconfortato, - che a me, più che il pensiero che stasera me ne devo scurare in carcere, ah?! Più di stù pensiero, m’abbrucia quello che deve fare mio zio. Quello, come minimo, mi toglie dallo stato di famiglia!

- E non fa bene? – Sentenzia Schwarzy.

- C’ha ragione.

 

Intanto che il mio diletto collega continua a prendere per il culo il povero rapinatore, mi do da fare con gli atti. Redigo il verbale d’arresto, i verbali di perquisizione personale e quelli di sequestro dei taglierini e delle calze di nailon.

- Firma, dai, - dico al mio pard. E quando è il mio momento di firmare mi accorgo che non ho più restituito la bic con il logo della banca alla cassiera carina.

Fortuna che c’è anche il numero di telefono.

Quasi quasi la chiamo.