Stava per staccarsi dal parapetto quando una voce che temeva lo gelò: “Buongiorno, temevo di averla persa, beh… suppongo che in questo luogo surreale non ci siano impegni che la trattengano, quindi che ne dice di accompagnarmi in paese a controllare in che stato è la mia macchina?” e senza aspettare risposta lo prese sottobraccio con una naturalezza che lo turbò un poco.

“Senta” si fermò lui, “non mi fraintenda, io non la conosco e non ho niente di personale contro di lei, ma glielo dico chiaro, non cerco compagnia, per cui la prego…”, e una vena di supplica sembrò quasi rompere la sua voce stanca, “…faccia come se non mi avesse visto”.

“Che bastardo” pensò subito di sé, “chissà adesso come ci rimane, e poi, nonostante tutto, delle donne a modo tuo hai sempre avuto rispetto”. Si sentiva obbligato a risponderle così e in un certo senso, buon senso, lo era, ma c’era qualcosa in questa ragazza che sembrava richiamarlo al mondo, qualcosa di forte e vitale, di sensuale e un po’ pericoloso come il canto delle sirene; sentì che quel canto rischiava di portarlo via per sempre così come quel vento freddo che le agitava i lunghi capelli rosso acceso davanti a lui ed ebbe per un attimo come l’istinto di reggersi al parapetto.

Lei non mutò minimamente espressione, non si offese, non protestò, chiuse solo un poco gli occhi, e sorridendo con quel sorriso carico di intenzione, lo baciò.

Per la prima volta dopo chissà quanto tempo Mario sentì la stanchezza e la paura capitolare, rotolare via all’improvviso travolte da quel bacio a cui si aggrappò con tutta la speranza del disperato; era pericoloso e lo sapeva, ma era così stanco, così tremendamente stanco che capì di non avere sufficienti energie da opporre a quella donna, e a questo pensiero, la strinse più forte.

Passarono il resto del pomeriggio insieme, non importava a fare cosa purché insieme, senza pensare a niente ma cercando di bloccare quel tempo che invece volava, e più le ore correvano più Mario si sentiva stranamente diverso, “domani parto” si diceva, “domani me ne vado”, eppure la presenza di quella donna, il fantasma di quell’amore lo solleticavano, una tortura più che un solletico, il miraggio infido e dorato che per lui potesse ancora esistere l’occasione di un’altra possibilità.

Si fermarono a cenare in un locale piccolo ma frequentato, incosciente ormai lo era stato, tanto valeva emergere da quell’isolamento e affrontare il mondo, sentiva che vedere un po’ di gente intorno a sé gli faceva bene, e poi adesso era uscito allo scoperto e per una sera aveva deciso di vivere da persona normale accanto a lei, affascinante e ultimo passaporto per la normalità.

Arrivati al dolce lei stette un po’ in silenzio poi, com’era inevitabile, vibrò il colpo: “parlami di te”.

Mario si sentì affondato, ma incredibilmente libero, non aspettava dentro di sé che questo momento, sì, con lei avrebbe parlato, a lei avrebbe detto tutto, a lei che lo guardava con quel sorriso ampio, con quegli occhi solari e bellissimi un po’nascosti dai lunghi capelli rosso acceso, lei che era stata capace con un bacio di spalancargli di nuovo la vita.

“Sono un killer” disse tranquillo.

E improvvisamente sentì quarant’anni di vita franargli sulle spalle come una valanga; era stanco e svuotato, anche se gli pareva che da qualche parte in fondo a sé ora brillasse fioca una luce di speranza, così debole che aveva una cieca paura di spegnerla solo a pensarci; si abbandonò allora indietro sulla sedia e si lasciò andare.

“Sì, il killer, uccidevo persone… è andata avanti per un po’, un po’ di anni, poi ho sgarrato e l’ho fatto con la gente sbagliata e… adesso sono qui, che scappo”.

“Da quanto tempo”, chiese lei che nel frattempo era rimasta impassibile.

“Troppo, pensavo di avercela fatta, mi ero illuso che mi avrebbero lasciato in pace, invece…quelli… è gente che non scherza e un giorno hanno deciso di farmi capire chi erano e… mi hanno ammazzato la famiglia… mia moglie e…” e qui la voce divenne d’un tratto cupa, stranamente irreale, “…e mia figlia… avrebbe pressappoco la tua età…e da lì è iniziato tutto, anzi, è finito”.

Andò avanti a parlare a lungo, le raccontò tutto, della sua vita e del suo dolore, mentre lei sempre immobile lo ascoltava con gli occhi fissi e duri su quella pozza di gelato sciolta nel piatto; “quand’è stata l’ultima volta che hai ucciso?” gli domandò a un tratto riemergendo dal silenzio.