Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Esistono luoghi e periodi nei quali mi è più facile scrivere. La situazione che prediligo è il tavolino all’aperto di un bar in una delle più belle piazze della mia città, nei pomeriggi dei mesi tra maggio ottobre, e in special modo d’estate: mentre il mondo si lamenta del caldo, io trascorro ore di piacere al computer portatile, confortato da un caffè ristretto, un bicchiere di acqua e menta o una bibita dissetante alla frutta.

Mentalmente, non c’è dubbio che in quei momenti sono altrove, nel mondo che si costruisce nella narrazione, malgrado le voci i rumori e la vita reale mi circondino. Quando si è avviati su un progetto, in qualunque istante della giornata (e talvolta della notte) possono nascere in testa idee, spunti, soluzioni: immagini e parole innescate da una frase letta su un giornale, dalla suggestione di un luogo, da un ricordo, da un sogno. Con una parte della testa, si è sempre lì.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Ora che fai questa domanda, mi rendo conto che non mi soffermo tanto sulle vittime, quanto sui motivi per i quali i miei assassini le scelgono. È lo spirito del noir: il male indagato dalla parte del male.

I miei assassini a volte sono persone normali ma esasperate, o deluse, o sconfitte. Ecco, di solito sono personaggi sconfitti dalla vita. E non sempre sono del tutto malvagi, così come non sempre (quasi mai, invero) vengono puniti. State attenti, agli sconfitti.

Anche le vittime non hanno caratteristiche specifiche o ricorrenti. A volte possono avere un passato da carnefice, ma non sempre.

Di solito le mie storie non seguono lo schema delitto-indagine-punizione: nelle mie storie i ruoli di vittime e di colpevoli si confondono, male e bene non sono chiaramente distinti, e non si distingue nemmeno un confine.

Tu, potresti essere il mostro; tu, potresti essere la vittima.

O entrambi.

Qual é il tuo modus operandi?

Anarchico e incostante.

Mi piace partire da una situazione che potrebbe essere l’inizio di un racconto, il nucleo di un romanzo, oppure uno delle numerose bozze di possibilità che si accumulano sul disco rigido. Per esempio, descrivo due militari mentre si preparano ad assaltare un compound nel deserto; lì trovano qualcosa, o forse qualcuno. Poi, lascio decantare le pagine scritte, e col tempo arrivano domande: chi sono quei due? Che cosa li ha portati a compiere quell’azione? E che cosa accade, dopo? Quando le risposte sono convincenti, quando riesco a decidere alcuni punti fissi (l’epoca; il punto di vista; le ambientazioni…), allora capisco che c’è materiale per una narrazione articolata e proseguo.

Altre volte mi trovo a scrivere un finale e un inizio, mentre tutto ciò che c’è in mezzo arriva in un secondo tempo.

Altre volte ancora ho uno schema già definito in testa, per cui quando comincio a scrivere so già come inizia e come finisce la storia.

Di frequente mi capita un’idea, un’intuizione che potrebbe arricchire un capitolo, risolvere una situazione, concludere un racconto: allora annoto in fretta pensieri, azioni, suggestioni, luoghi, bozze di dialoghi. Materiale grezzo che una volta sul PC viene meglio meditato e potrebbe diventare qualsiasi cosa oppure finire nel limbo della discarica.

Non è raro che mescoli tutti questi metodi: alla fine, non ne ho uno preciso. Non potrei insegnare scrittura creativa.

In ogni caso, di sicuro, una parte importante la dedico alla documentazione: strumenti essenziali sono Google Maps per le ambientazioni; i siti di informazione per le vicende di cronaca; altri siti, meno frequentati, per la politica internazionale; e poi libri, pubblicazioni. Per scrivere “Rosso noir, un pulp italiano” (tra i miei romanzi, quello che prediligo – fortunatamente ancora in catalogo), ambientato nella lotta armata dei primi anni Settanta, ho letto quasi tutto ciò che ho rintracciato sull’argomento, soprattutto le fonti dirette, ed è stato un piacere aggiuntivo alla scrittura.

Con l’ultimo romanzo, “Il male che fa bene”, invece, mi sono documentato sul Medio Oriente contemporaneo, sull’uso di certe sostanze stupefacenti e sulla loro produzione, sull’Isis, e anche su altri argomenti che preferisco non rivelare per evitare spoiler; oltre al Medio Oriente, l’azione de “Il male che fa bene” è il centro storico della mia città: questa parte è stata facile.

Quando scrivo tengo sempre aperta una pagina di Wikipedia, una della Treccani online, e un prezioso sito di sinonimi. Se è necessario, visito luoghi, interrogo consulenti, scrivo a esperti, domando a chi può conoscere un argomento che in qualche maniera rientra nella storia in corso. Sempre per “Rosso noir” mi è persino capitato di cercare, trovare e avere la fortuna di maneggiare un’arma specifica (difficilmente rintracciabile) per descrivere le sensazioni e le reazioni d’un personaggio che la utilizza.

Chi sono i tuoi complici?

Si direbbe che scrivere sia un atto creativo individuale, eppure non è proprio vero.

Innanzi tutto, complici involontari sono gli autori migliori di me e le loro narrazioni: serie tv, romanzi, racconti, film. Ma anche le persone che incrocio nella vita: comportamenti, frasi, discorsi  captati per caso, rubati, a volte mi restano nella testa e fanno lavorare l’immaginazione, fanno nascere situazioni e personaggi – anche a distanza di anni.

Tra i complici volontari, essenziale è una pattuglia di amici lettori-test, che con le loro osservazioni critiche arricchiscono il lavoro fornendo (ognuno in modo diverso, ognuno in modo importante) un essenziale, sincero, spietato punto di vista terzo a me precluso.

Persino i lettori finali, a valle di tutto il processo, continuano a svolgere un ruolo. Innanzitutto segnalando errori e inevitabili refusi. Poi, arricchendo il significato di ogni storia con il loro punto di vista originale.

Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!

In alcuni casi non so proprio chi siano, e me lo domando. Lo scorso anno (2022), per esempio, ho vinto con un racconto il premio Stefano Di Marino. Un grande onore per me, anche perché ho affrontato la spy story per la prima volta. “L’uomo sontuoso” è stato pubblicato in agosto su Segretissimo Mondadori, fascicolo che avrà venduto migliaia di copie. Ma chi siano tutti quei lettori, lo ignoro. Nessuno compra un romanzo da edicola per leggere il racconto in appendice, anche se qualche isolato riscontro effetti c’è stato.

Con i romanzi diffusi in libreria i numeri sono inferiori però, vuoi per le presentazioni, vuoi per gli articoli di stampa, vuoi per i social, sono più frequenti i contatti coi lettori. Dato che non percorro la penisola per la promozione e dato che non sempre la distribuzione è capillare, molti lettori sono miei concittadini o quasi. Trovo che siano sempre molto lusinghieri nei miei confronti. Alcuni mi dicono – e paiono sinceri, entusiasti – di aver trovato avvincente la lettura, chiedono addirittura quando uscirà il prossimo, con mio grande sgomento.

Trovo interessante che molte siano le lettrici, malgrado le mie siano narrazioni di genere senza lieto fine.

In ogni caso, mi piace molto il contatto e il confronto con i lettori.

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

Uso l’immaginazione per produrre narrativa d’intrattenimento: ho un messaggio?

Alcune riflessioni dei miei personaggi le condivido, altre per niente: l’importante è che siano funzionali alla storia, coerenti con il personaggio e soprattutto plausibili per non sfidare troppo la “sospensione dell’incredulità”, il patto che nasce tra il lettore e l’autore.

Devo dire che a me capita di rendermi conto del significato nascosto tra le righe di ciò che ho scritto soltanto molto tempo dopo la stesura, oppure quando una lettrice (raramente un lettore) me lo svela. Per cui, è inevitabile, qualcosa di ciò che penso finisce nei romanzi e nei racconti, ma il più delle volte non è un messaggio intenzionale.

Infine non posso negare che ho temi ricorrenti: riflessioni sul potere, sulla morte, sui rapporti tra le persone, sulla vendetta. E a parte il messaggio che “non esistono poteri buoni”, per il resto offro domande o al massimo riflessioni.

In ogni caso, non si può scrivere nemmeno una pagina senza mettere dentro qualcosa di se stessi. Un romanzo, un racconto, non sono soltanto la tecnica del narrare.