È opinione diffusa tra coloro che si sono convinti di trattare “letteratura” che la figura dell’Eroe sia un retaggio di epoche passate, un modello infantile se non proprio reazionario e che qualsiasi proposta, anche nell’ambito di produzioni popolari dichiaratamente d’evasione, vada implacabilmente cassata da questi ingombranti personaggi. Due esempi valgano per tutti.

Anni fa mi fu commissionato da un editore “intellettuale” un romanzo salgariano (sic!) che però, alla fine fu rifiutato perché il protagonista era un «personaggio troppo volitivo, deciso, quasi maschilista» mentre invece nelle intenzioni del suddetto editor (desiderata rimasti sino ad allora ignote a me) doveva essere più carico di dubbi, di introspezioni, quasi un protagonista romantico decadente. Mi tenni i diritti del mio romanzo.

Più recentemente facendo visita a una collega che si dedica più che altro a traduzioni di memoir e negli anni, mi pare, aver perso quel genuino entusiasmo per la narrativa pulp che pure un tempo lo animava, portai ingenuamente in omaggio alcune copie degli ultimi Professionista, credendo di far cosa gradita. Ammetto che sentirmi dire: «Sai... a me questi personaggi troppo super eroi non interessano più» al di là dell’evidente scortesia, mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca.

Però resto fermamente convinto che l’Eroe sia un punto fermo della narrativa popolare e, per quanto si voglia girare la frittata, non sia possibile farne a meno.

          

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