È stata da qualche settimana rilasciata sulla piattaforma Netflix l’attesissima stagione 4 del “La casa di carta”.

Partiamo da una precisazione. Una stagione in quanto tale deve avere un inizio e una fine. Quindi nella realtà dei fatti la prima e la seconda esauriscono il primo capitolo della storia (15 puntate sulla rapina alla zecca di stato). Se poi Netflix ha deciso di rilasciarla in due parti con episodi accorciati (22 puntate), problemi loro.

Dopo aver visto la terza stagione ci si aspettava che nello stesso particolare modo la quarta completasse il secondo capitolo (rapina alla banca di Spagna) e invece… non è così e bisognerà ancora aspettare la quinta o addirittura la sesta stagione per arrivare alla anelata conclusione.

Ma perché la produzione de “La casa di carta” ha generato questa confusione? È solo per una scombinata gestione mista ispano-americana?

Il dubbio che qualche problema a livello di sceneggiatura ci fosse c’era già venuto, ma la certezza ce l’ha data la visione dell’extra speciale “La casa di carta”: Il fenomeno”.

È lo stesso Alex Pina che dice che le puntate venivano scritte navigando a vista, inseguendo letteralmente la produzione di puntata in puntata. La gang decideva puntata per puntata come si sarebbero evolute le cose senza avere un’apparente filo da seguire se non quello della trama principale, ossia la rapina.

Mark Cherry, il creatore Desperate Housewives altra serie di enorme successo, ebbe a dichiarare che la fortuna della prima serie era stata determinata dal fatto di essere a casa disoccupato. Questo gli aveva permesso di concedersi tutto il tempo e l’agio di generare i 23 episodi in maniera organica e senza distrazioni, cosicché da rendere la stagione con una struttura narrativa pressoché perfetta.

Il grande successo lo aveva costretto poi a scrivere in fretta e furia la seconda stagione, con una forte penalizzazione degli ascolti, correndo il serio rischio di chiuderla lì. Saggiamente Cherry decise di prendersi il suo tempo e scrivere la terza stagione sulle orme della prima e grazie a questa sua ritrovata disciplina, è poi arrivato a chiudere ben 8 stagioni.

Questo modus operandi poco organizzato da parte degli sceneggiatori de “La casa di carta”, purtroppo lo si avverte chiaramente guardando la serie e per più di un motivo. Voltafaccia inspiegabili di personaggi cardine, flashback al limite del possibile, morte gratuita di uno dei personaggi principali che poteva essere benissimo evitata, etc. Tutte cose poco sensate, frutto di decisioni imprudenti e poco meditate in un’economia globale dell’intera stagione.

La maggiore pecca della quarta serie è di conseguenza anche la diluizione degli accadimenti salienti su un arco di 8 episodi, quando se ne sarebbero potuti benissimo realizzare 4.

Altra nota dolente il personaggio di Berlino che ritorna con vari escamotage dopo essere morto nella seconda serie.

“La casa di carta” in questo caso si può dire che paga lo scotto del suo successo. Vediamo perché.

A detta della produzione, la serie era uscita in Spagna con un’iniziale interesse che è tuttavia scemato fino a diventare quasi un fallimento. La svolta è arrivata con l’acquisto del pacchetto da parte di Netflix (sempre in cerca di nuove serie da riversare sulla propria piattaforma digitale) che ha “globalizzato” “La casa di carta” in tutto il mondo, rendendola la serie in lingua non inglese più vista di sempre. Un fenomeno planetario che ha cambiato la vita ai protagonisti, ma anche agli artefici dietro la telecamera, a partire da Alex Pina.

La produzione non poteva prevedere questo inaspettato successo, una bomba che gli è un po' scoppiata tra le mani. Cosicché il personaggio più riuscito e controverso – Berlino – viene bruciato con la sua morte sacrificale, senza che gli sceneggiatori si siano lasciati una via d’uscita (se volete provare a scrivere una serie, lasciatevi sempre una via d’uscita, per quanto impervia sia, ma lasciatevela…).

Per Alex Pina questa scelta avventata è stata un po' come aver ucciso la gallina dalle uova d’oro. Anziché provare con un ardito escamotage a riportare Berlino in vita, è stato messo in piedi un tentativo di resuscitarlo in flashback. La cosa ha avuto un senso di novità nella terza serie, ma nella quarta è addirittura diventata stucchevole, con scene più da avanspettacolo che da serie Netflix.

Ultima nota. E’ stato davvero deprimente dover prendere atto che anche la Spagna è stata in grado di realizzare una serie TV che seppur con delle pecche, è incontestabilmente di enorme successo, con attori capaci di recitare e credibili nel ruolo, e con sceneggiatori e registi di livello. L’ulteriore mortificazione sono state le molte scene girate in Italia e – ciliegina sulla torta – il leit motiv musicale, ossia la tanto amata e odiata Bella ciao, il canto popolare associato al movimento partigiano italiano che diventa l’inno alla resistenza dei Dalì in tuta rossa.

Purtroppo al suono di campane a morte bisogna constatare che il cinema italiano è ormai un cimitero popolato solo dagli zombie di epigoni o di personaggi emersi dai reality show, per cui aspettarsi qualcosa di vagamente decente è pura utopia. Le poche eccezioni di serie riuscite, vedi Gomorra o Rocco Schiavone ad esempio, sono lì a confermare la regola. La triste regola di prodotti imbarazzanti.