Al sussurro supplichevole di “…ragazze, state calme” Giovanni D’Amore incrociò lo sguardo con quello delle tre belve.

Amiche femmine.

Amiche scrittrici femmine arrivate da luoghi diversi, come tre re magi, ognuna con un racconto da leggere.

Erinni scatenate, quello erano.

Già pronte a saltargli al collo per azzannare. Infatti la vena giugulare del povero cristo  pulsava e martellava.

“Allora che si fa?” chiese Maria sbuffando da sotto in su verso il ciuffo biondo che le cadeva sugli occhi in ribellione con il resto del caschetto. Tale e quale Raffa prima maniera, lo diceva anche sua madre commovendosi.

“…?…” Giovanni tentò un sorriso.

“Li prendiamo a sediate, ecco che si fa!” fu il commento cristiano della compagna Lorella, una vita a sinistra e finalmente veder coronato il sogno di un racconto impegnato pubblicato da una vera casa editrice. Altro che il ciclostile della sezione quando era giovane…Non erano serviti venti anni nel movimento femminista, per arrivare a un risultato come quello.

Erano bastati semplicemente due piatti di spaghetti alla Norma preparati per una comitiva di passaggio a casa di Giovanni, tra cui c’era un editore.

Ecco fatto.

I dodici apostoli della vacanza siciliana avevano messo sulla tavola i loro ricordi, quelli dei loro genitori, dei compagni più vecchi. Dei compagni dei compagni di cui avevano sentito forse solo parlare.

Quella sera il sessantotto pareva successo cinque minuti prima. Gli occhi di tutti erano diventati brillanti, le pancette da commendatori ad alcuni si erano prosciugate. A uno sembravano ritornati i capelli.

E davanti alla cassata al forno, un po’ brillo e con gli occhi piccoli, l’editore aveva detto soltanto

“E allora via, scriveteli, questi racconti…” poi si era appisolato con la testa sul tavolino messa in mezzo alle braccia incrociate, come un bimbo.

Lorella non aveva dormito quella notte e le sette successive. Le pareva di non meritarlo, e che tutto sarebbe comunque finito in una bolla di sapone. L’editore al risveglio non si sarebbe ricordato di niente, a parte la bontà degli spaghetti.

Lo stesso pensò Maria, idem Giovanni. E pure gli altri commensali, tutti del “Gruppo letteratura ‘68”.

Invece Giovanni tenne duro e non mollò l’osso. Chiamò l’editore ogni giorno fino a quello della pubblicazione. Che ci fu davvero.

A qualcuno in quell’afflato di giovinezza erano rispuntati i foruncoli e Maria aveva di nuovo il ciclo di 28 giorni regolari.

 

Quella lì della Toscana però nessuno la conosceva. A parte Giovanni.

Si era trovata dentro a quella storia, ma non c’entrava un gran che. Tranne per il fatto che era anche lei ospite e sedeva alla destra del padrone di casa. Un’allieva. Forse.

Un po’ vecchia, per fare l’allieva.

Un’amica, forse. Bruttina, per essere un’amica di Giovanni.

Giulietta, si chiamava.

“Che nome del cazzo” aveva sussurrato Maria a Lorella “E poi è vecchia” E quella aveva fatto di sì con la testa e aveva sorriso ma era restata muta.

Loro non avevano chiesto niente, vedevano e facevano finta di non vedere, erano solo riuniti lì come ogni mese per il loro incontro. Spaghetti, cassata e la lettura del mese di agosto.

Quella lì, Giulietta, se ne stava un po’ zitta e un po’ no. Come se non avesse saputo decidere se intervenire. Ma quando poi aveva letto, aveva letto davvero bene.

Ogni tanto sorrideva pure. Si vedeva che si sentiva brava. Muoveva pure le mani. Leggeva e intanto rigirava tra le dita un anello antico dalla montatura importante. Irritante.

Comunque ormai c’era, non potevano escluderla, perciò scrisse anche lei il suo racconto per l’antologia politica: due paginette non molto significanti (ma dov’era poi, quella, nel ’68?) che finirono però al secondo posto nel libro, subito dopo il lungo racconto di Giovanni, che apriva la raccolta. Lui aveva trovato l’editore, niente da dire, se lo meritava di stare per primo. Quella invece che c’entrava?

Maria e Lorella si erano piuttosto incazzate ma tanto era sempre Giovanni a decidere. Perciò erano rimaste zitte.

E ora che finalmente questa cosa incredibile era accaduta davvero, ora che si trovavano nella libreria Millemilionidilibri per presentare l’antologia, lì, tutti insieme, compresa la brutta Giulietta, ecco che erano arrivati i fasci. Ragazzini, sì, ma fasci. Venuti per rovinare tutto. Avevano messo sui leggii il loro proclama.

Un manifesto letterario, anvedi un po’.

Papini e l’odio per la banalità. Di nuovo il poeta è vate. Sentirsi superiori. Modernità modernità, rompere gli schemi. Usare parolacce. Una, due, molte. Il gusto di stupire, il plauso strappato col giubbotto di pelle nera e la svastica che spunta sotto al braccio.

 

Come erano arrivati fin lì? E perché proprio lì?

Avevano preso la parola con noncuranza. Il capetto aveva la smorfia al labbro di sopra come Billy Idol. Pareva un secolo prima, e adesso Lorella di colpo si ricordava perfino le parole delle sue canzoni.

 

“Noi siamo i poeti della lametta…” aveva esordito il ragazzino al di sotto dei propri capelli acuminati per il gel extra strong “…e perciò vogliamo fare a fette la banalità del quotidiano, la rigidità delle convenzioni borghesi e la piattezza delle vostra vite insignificanti…”

 

Giovanni gettò uno sguardo in giro un po’ smarrito. Li aveva rimorchiati in internet, su un blog della stessa catena a cui aveva agganciato il proprio. Veramente erano stati loro, a farsi vivi con lui non appena era comparsa la notizia della presentazione a Roma dell’antologia del 68. Sbiancò.

C’era caduto come un pollo. Si era portato i fasci a casa.

Girò appena la testa e vide Lorella stringere la sedia fino a farsi bianche le nocche della mano. Riuscì a leggerle a fior di labbra la frase semplice ma compiuta “…Io li ammazzo…”

Poi volgendosi di qualche grado poté contemplare Maria che stava seducendo un cliente della libreria e contemporaneamente aveva messo il proprio udito a disposizione del discorso del fascistello. E così seduceva e avvampava di sdegno, mantenendo un encomiabile controllo e rischiando insieme di esplodere per lo sforzo.

Giulietta stava abbastanza tranquilla, ma all’improvviso si alzò con uno sguardo piuttosto divertito e fece un cenno alle altre due, invitandole ad andare nell’angolo riservato ai lettori bambini.

Le altre due belve accettarono l’invito. Così Giulietta la remissiva incrociò lo sguardo di Giovanni promettendogli con un brutto sorrisetto indecente un casino da guerriglia urbana proprio lì, dentro la libreria Millemilionidilibri.

Giovanni era un tipo sveglio e giocò d’anticipo, alzandosi e convergendo anche lui nell’angolo rosa celeste e verde pistacchio.

“Ragazze, per favore state calme” Intanto cercò dentro di sé le parole giuste. Ci sono sempre, le parole giuste.

Giulietta era piena di ammirazione.

Come faceva a mantenere quel sorrisetto cazzeggiante in quella situazione lì? C’era da morire di vergogna. Il pubblico intervenuto stava dando segni di evidente disorientamento.

Zitti un po’, dissero insieme le ragazze…Cosa c’entrava adesso L’ode alla Cacca?

Perché di quello trattava la poesiola tirata fuori all’uopo dai vati della lametta. Cacca sui muri, merda dappertutto. Il vero riscatto della vita umana stava nell’impiastricciamento con le proprie medesime feci. Puzzolente ma efficace antidoto al logorio della vita moderna.

Giulietta appena afferrò il senso dell’invocazione dei fasci mormorò “Mio Dio..” pallida e bruttina come un’eroina dell’Ottocento.

Cristo santo, ci manca che si senta male. Giovanni disse due o tre parole sul possibile senso positivo di quella demoniaca apparizione.

“Ok, forse ho sbagliato. Mi pareva però un’idea carina, quella del confronto. Sono giovani ma hanno idee buone. No, cioè, non proprio buone. Però ci provano…”

Prima che ci fosse qualche replica, girò il culo e se ne andò in mezzo al pubblico. Maria sgranò gli occhi. Eccolo lì, il Giovanni che conosceva. Dopo l’ode alla cacca c’era in scaletta il panegirico del perfetto paraculo.

Lorella strinse gli occhi per odiarlo meglio. Giulietta stirò la bocca come a dire “che peccato”.

Ok.

Le tre belve per niente ammansite si dissero tra i denti che comunque quella pubblicazione era merito di Giovanni. Che tutti possono sbagliare. Ora non lo potevano ricoprire di insulti. E neanche ammazzarlo. Non lì, comunque. Non subito. Ecco, ormai l’avevano detta, la cazzata del giorno.

Si sorrisero tese. Altre tre o quattro parole incomprensibili, poi si divisero.

Maria mosse appena il caschetto biondo e portò le proprie tette straordinarie verso un cliente appena entrato in libreria. Lorella bestemmiò tra i denti e uscì ad accendersi una sigaretta contro il cielo di Roma che pareva fatto a strisce. Giulietta restò al bancone della libreria caffè, ordinò un cappuccino con la sua faccia bruttina e triste, e rimase a guardare fisso Giovanni, che se ne accorse e perciò evitò di andarle vicino.

 

L’estate prima i gatti di Giovanni avevano trovato Giulietta vicino al giardino, tra un albero di limoni e una gigantesca pianta selvatica di malva. Era seduta e stava leggendo a voce alta, e loro si erano messi lì intorno ad ascoltarla.

Doveva essere una bellissima donna, aveva pensato Giovanni, mentre si avvicinava. Lo accolse invece un sorriso miope di scusa per essersi messa lì in quel giardino. La calura sulla spiaggia era troppa. I gatti erano molto attenti e ben educati, complimenti.

Ecco tutto, disse Giulietta alzandosi e insieme inciampando sulla radice di un ficus. Brutta e goffa.

Giovanni arrossì per la delusione e fu preso da uno dei rarissimi sensi di colpa della propria esistenza. Perciò le rinnovò l’invito alla lettura, ogni pomeriggio, per tutto il tempo che voleva.

Anzi, sono anche io scrittore. Lo siamo tutti, fu il commento banale di lei, sciacquato nella tristezza più cupa, mentre se ne andava zoppicante massaggiandosi l’anca grassoccia.

 

Ecco come Giulietta - capelli scialbi, occhiali grandi e denti radi - era entrata nella vita di Giovanni, scrittore benestante e nullafacente del paesino di Roccabuffa.

Una vera celebrità, Giovanni, a partire dalla maestra del paese che se lo divorava a sospiri ogni volta che lo incontrava per strada.

E quando venite a leggere le vostre opere ai ragazzi, e quando venite. Perciò lui sempre cambiava percorso, per non incontrarla. Per non doverle un giorno dire che di opere travagliate si trattava, trattati di amore osceno al limite della pornografia, intrigo di corpi di uomini e femmine, femmine e femmine, uomini e uomini. Con qualche variante bestiale. Letteratura altissima ma per pochi.

Così gli parve cosa buona la compagnia di Giulietta, e volle metterla alla prova. Al dodicesimo giorno le mise in mano un foglio con le proprie articolate visioni delle urgenze umane, e le disse solo “Leggi”.

E lei lesse. Senza vergogna. Senza inciampi. Con accenti perfetti su rime che bene accostavano razzo con pazzo. Da professionista.

Al termine della lettura perfetta alzò gli occhi dal foglio e chiese soltanto “…Ma tu come fai, a scrivere così?”

Giovanni lo prese per un complimento, e da lì cominciò a trovare Giulietta orribilmente simpatica.

La invitò a cena e le presentò gli amici del gruppo di lettura.

 

Poi finirono le ferie ma continuarono le letture, al telefono. Preso dalla sonorità delle proprie frasi di cui si sentiva orgoglioso, ora Giovanni poteva quasi dimenticare l’aspetto di Giulietta.

Lei non ci pensava. Era realista. Sapeva comprendere l’abisso che nel genere umano separa il possibile dall’improbabile e poi quest’ultimo dal miracolo. Non si era data neanche il pensiero di una storia d’amore. E questa era la vera felicità.

In comune con Giovanni aveva soltanto la condizione di benestante. Nonostante ciò, lei lavorava part time come archivista all’Archivio di Stato. Spostava i faldoni di vecchi documenti accarezzandoli. Si sentiva felice di fare parte di tutta quella storia. Nobile fiorentina, aveva avuto tra le proprie antenate donne coraggiose, abili, intriganti, misteriose, ambiziose, potenti. Mai belle.

Guardava e riguardava i loro ritratti, felice di non aver ricevuto in dono da quelle alcuna tara di vanità. Questo le consentiva di lavorare, vestire abiti anonimi, viaggiare in bus e fare a meno di amicizie frivole. Pure di sentirsi intimamente e profondamente comunista. E godeva in tranquillità anche della trasparenza che le dava la propria bruttezza.

 

Su Roma venne la sera.

Come d’accordo si avviarono al centro sociale per la lettura dei racconti. Un’altra idea di Giovanni, che aveva dei contatti tramite l’amico di un amico della sorella ribelle della maestra di Roccabuffa, una disgraziata che aveva fatto morire di crepacuore metà della propria famiglia per via di certe strane idee che l’avevano portata alla perdizione lontano dalla Sicilia.

Fecero tre chilometri a piedi. Maria era gelata e si vedeva che era arrabbiata, perfino il trucco se n’era venuto giù dagli occhi. Pareva brutta quasi come Giulietta. Lorella propose allora di prendere il tram anche se non avevano il biglietto, di sabato sera chi vuoi che controlli. E gli ultimi due chilometri furono perciò risparmiati ai piedi della triste comitiva.

Apparve il centro sociale, ex fabbrica Snia, colorato e con bicicletta a vessillo sul tetto. Giulietta non ne aveva mai visto uno, ma le parve un posto accogliente. Perfino familiare.

Gli altri finsero tutti di muoversi con agio. Giovanni entrò e prese a salutare un sacco di gente che non lo conosceva. Le due amiche siciliane si lanciavano occhiate eloquenti, che volevano dire tutte guarda qua questo che tipo. Il gruppo si sparpagliò nella grandissima sala piena di fumo.

Giulietta rimase seduta da sola. Tirò fuori un libro di poesie della Merini e prese a rigirarsi l’anello tra le dita, mordendosi un labbro indolente, senza rabbia. Passarono così due ore.

Tettamunita felice e tranquilla riapparve. Si stringeva al braccio di omone alto e briccone orecchinopendulo piercing dotato chissà dove e chissà quando se l’era messo.

Così avrebbe detto Giovanni, così lo avrebbe descritto, pensò Giulietta sorridendo a Maria che le si era materializzata davanti in coppia inedita. Birra dipendente e avvolta da nuvola grigiastra  di fumo di sigaro.

Giulietta però non lo avrebbe scritto così, neanche per idea. Le piaceva l’italiano piano e corretto, un po’ vecchiotto. Noioso, come diceva Giovanni. Si scosse e guardò meglio.

Per dirlo alla sua maniera: O dove l’aveva trovato, la bionda formosa, tale schianto d’uomo?

“Io vado” disse quella rivolta a Giulietta come per farle un piacere. Pura buona educazione. Mentre stava per chiederle “Dove?…” Giulietta si morse il labbro, intuendo la meta dei due, probabile alcova su sedile di Fiat Punto o albergo da sessanta euro compresa prima colazione con brioche. Ma senza crema.

Alzò gli occhi e i due non c’erano più, trasportati all’indietro dalla marea umana

- arrendevoli e perduti come in un tango, occhi negli occhi e mani nelle tasche dei jeans uno dell’altra per preliminare sfregamento e scambio di calore tra organi -

Giulietta riuscì a recuperarne la vista e a leggere il labiale di Maria quando erano già sulla porta del centro sociale, direzione uscita:

“ Anche Lorella viene con noi…”

Poi con sorrisetto idiota solo un’ultima cosa che non voleva dire niente “ …tu e Giovanni…mi raccomando…”

Giulietta non si mise a pensare alla possibilità nuova che questa situazione poteva dare a quella giovane coppia. Negò a se stessa la facoltà di pensare che Maria e Lorella avevano forse rimorchiato insieme, e che ora fossero pronte a spartirsi il bottino. Era una ragazza romantica, Giulietta. Omen nomen.

Perciò cacciò l’incipit di un pornopensiero, causatole senz’altro dalle frequentazioni con gli scritti di Giovanni, sospirò e alzò gli occhi in giro per cercare quel disgraziato del suo amico. Lo vide passare al seguito di ragazzo con coda di cavallo. Le fece ciao ciao con la mano e tirò dritto senza fermarsi. Aveva molta fretta, si vedeva. Molto impegnato. Forse anche vagamente imbarazzato. Nessun accenno alla lettura che avrebbero dovuto fare.

Giulietta allora si sentì sola e triste. Abbandonata in mezzo a cinquecento persone parlanti, fumanti, cantanti, quasi tutte sorridenti. Il ghiaccio prese a salirle dai piedi ma le bastò guardare l’anello e il principio di quella paura la lasciò. Subito. E tutto fu calmo.

Giulietta si rimise ad aspettare.

“Ehi, che fai, dormi?” la voce di Giovanni le arrivò dal mondo del fumo e del rumore. “Dai, svelta! Tra cinque minuti tocca a noi leggere!”

Giulietta riemerse dal sonno con il suo grasso, gli occhi pesti e stanchi appiccicosi, anche un po’ di sudore per lo spavento di quel risveglio improvviso. Ora doveva leggere, adesso, subito, immediatamente. Giovanni era già sul palco. Il rumore era cessato. Lo aveva raggiunto, tachicardica e goffa.

Seicento orecchie avevano ascoltato farsi potenti le loro proteste scritte per un mondo che qualcuno voleva fare migliore, qualcuno che per questo nel ‘68 era finito ammazzato. Buona performance. In tutto dieci minuti. Grandi applausi da tutto il centro sociale.

Ne valeva la pena.

Ne valeva la pena Giovanni, ma io ho perso il treno per Firenze.

Alzata di spalle.

Dormiremo qui.

Nooo… mica insieme. Io ho il sacco a pelo, tu puoi stare lì accanto. “…??…”

Vedrai che un lenzuolo ce lo trovano, una rete per te. Io sto sul sacco per terra.

Giulietta è nervosa. Stanchissima. E poi c’era quell’accordo con le altre ragazze. Sì, va bene, uno scherzo, ma un patto è un patto, non è questione di cavillare. Parole che restano.

E ora tutto questo squallore, e neanche potersi fare una doccia, e dover dormire per terra. Non c’è giustizia.

Ripensa ai fascisti che staranno nei loro letti puliti di pariolini e vede insieme Maria abbracciata al fusto e Lorella che forse è nella stanza accanto o forse no.

Lei invece è lì alle tre del mattino, in mezzo al fumo che non se ne va, con Giovanni che le dorme accanto ma solo per modo di dire, se ne sta lontano come se avesse la rogna. Piuttosto seccato perché lei poteva leggere anche meglio. Non è stata come quando intratteneva i gatti, non è stata come al telefono. Così le ha detto prima di addormentarsi.

Ora non ha più niente da dirle e non vuole dirle proprio più niente. Solo starle lontano.

Questo Giulietta lo ha capito.

Fa scattare il meccanismo dell’anello e lascia cadere nell’orecchio di Giovanni due gocce di potente veleno, l’eredità della bruttissima nonna Ofelia.

Poi si alza ed esce dal centro sociale, in cerca di nuovi gatti per cui leggere.