Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Di norma alla mia postazione di lavoro a casa. Un pc stretto tra pile di libri, in una stanza carica di volumi, statuette, dvd e vhs… niente di troppo originale, quasi lo stereotipo dell’erudito al lavoro. Non riuscirei a lavorare all’esterno; persino per studiare non riuscivo a farlo nei parchi, mi distraevo.

Ma mentalmente, come immagini, vado anche molto lontano. Soprattutto nel tempo, perché sul piano dello spazio il mio atlante è soprattutto quello del Vecchio Mondo: nei miei scritti sconfino raramente oltre oceano (l’ho fatto per Poe, Hawthorne, Bierce, Lovecraft, per gli immrama dei monaci navigatori irlandesi, le avventure delle piratesse dei Caraibi e poche altre volte) ma le distanze sono a volte favolose: la geografia fantastica dell’Odissea porta in fondo – per dire – ai confini ultimi della realtà, sia in senso cosmografico che metafisico, si pensi alle terre dei morti.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Allora, io mi considero prevalentemente un saggista, anche se in qualche occasione scrivo narrativa e i miei cassetti ne sono abbastanza pieni (su questo fronte, scaramanticamente, non divulgo ancora novità prossime). In tal senso, la domanda fortemente metaforica finisce con il riguardare la consistenza dei personaggi che tratto sia da saggista sia da narratore.

Come saggista, la “scelta” è legata a opere che mi affascinano, inseguendomi a volte fin dagli anni di liceo o anche da molto prima. E lì certo c’è uno sforzo di comprensione del personaggio, a volte neppure necessariamente il protagonista. Ma per me, trattando Odissea o Eneide, l’identificazione con il protagonista arriva naturale; per Apuleio c’è stata fin dal liceo una sym-patheia con l’autore. In altri casi a dettare l’agenda è la mia storia, come quando leggendo le avventure arturiane mi ritrovo in Merlino, o con Dracula in Van Helsing. La scelta è legata a un rispecchiamento almeno parziale, caratteriale o funzionale, di ruoli, di maschere – a volte di limiti e goffaggini.

Sulla narrativa, invece… Considera questo: io ho iniziato a scrivere quando il maestro, in quarta elementare, ci aveva affidato un compito per storia: immaginarsi presenti a un assedio del medioevo, e descrivere. Io avevo scritto un testo in cui figuravano anche i miei compagni, e a essere assediata era la classe vicina, il cui maestro era il capo dei nemici: in preda al panico, saltava accidentalmente in una botte di fuoco greco poi rovesciato dalle mura. Il nostro straordinario maestro, il dottor Giovanni Psenner, era un uomo colto e originalissimo, che per storia ci faceva mettere in scena delle vere e proprie pantomime recitate: da cui il mio amore per la recitazione, la maschera, il teatro… Trattando Poe il focus è stato proprio su questa dimensione virtualmente teatrale di un autore figlio di attori, che in forma indiretta ha scritto “teatro” tutta la vita, pur fallendo l’unico tentativo di opera teatrale in senso proprio. Ma da ragazzini, il “facciamo che ero” era la chiave di gran parte dei giochi. E insomma ho semplicemente continuato.

Del resto, nella costruzione dei personaggi, gioca un meccanismo anche filmico: per la nostra esperienza è inevitabile vedere almeno alcune parti incarnate da attori che le hanno giocate in chiave paradigmatica (pensiamo solo alle “Ombre Lunghe” Cushing, Lee e Price). Fino a immaginarli in scena in film che non hanno mai recitato: per dire, Manfred, il tiranno del Castello d’Otranto, è chiaramente Vincent Price… Anche questo è “costruire” personaggi o piuttosto riconoscerli.

Il personaggio dunque come maschera, e la scrittura – almeno per una certa quota – come un recare una parte in scena, vivere su un palcoscenico (im)possibile una vita vicaria parallela alla mia. Ovvio, in linea generale l’autore è e dev’essere TUTTI i personaggi, nella loro dialettica talvolta oppositiva e magari polare; in alcuni casi si ha anzi una sorta di reazione chimica nel rapporto tra autore e personaggio che rappresenta l’Ombra, i lati negativi, le tentazioni e le idiosincrasie (pensiamo al rapporto tra Valerio Evangelisti ed Eymerich). Ma è pur vero che soprattutto nella scrittura di genere, fortemente giocata su “tipi”, scatta facilmente un meccanismo di identificazione dell’autore simile a quello che intercorre tra giocatore e avatar (su questo tema scrive cose molto belle Roberta Sapino in Je est un avatar. Identità e social network nella narrativa francese contemporanea, Aras, 2022, dove la prima parte guarda in realtà a un piano più generale).

In fondo la letteratura ci regala vite altre, vicarie, che permettono il diramarsi della nostra in millanta possibili direzioni. Non so se sia mai capitato anche a te di imbatterti in persone che hai la sensazione di aver già conosciuto… quando? Più che di reincarnazione, almeno nel mio caso credo si possa parlare di incontri avvenuti in libri, per la corrispondenza dei tratti di queste persone con quelli di personaggi forti delle mie letture.

Del resto penso che narrare, soprattutto oggi, sia anzitutto riflettere sull’identità, nelle accezioni personali e in quelle collettive: la letteratura fantastica si può in fondo definire come quella che provoca sulle crisi dell’identità. E poi c’è tutto un discorso – ma lo riprenderei dopo – sull’importanza fondamentale dell’immaginario come categoria su cui misurare ciò che realmente siamo.

A questo punto si può capire come in una narrazione mi venga normale inserire, oltre che personaggi storici o archetipici, figure con la mia faccia e altre di persone più o meno vicine, enfatizzandone alcuni caratteri reali (a volte mixate le une con le altre, più spesso no), anche se ovviamente con ampi margini di licenza. Sia per “vittime” che per “assassini”, cioè, fuor di metafora, per ruoli positivi o meno. Non so se ho risposto alla domanda ma, rispetto a gran parte dei tuoi intervistati, mi rendo conto di finire con l’essere un caso un po’ anomalo… un monstrum, se vuoi.

Qual è il tuo modus operandi?

Sono un autore free lance, campo di diritti d’autore e lavoretti editoriali: oltretutto ho fretta perché ho sessantun anni, e ci sono lavori che – non si sa mai – vorrei arrivare a chiudere. In genere mi alzo presto e lavoro con ritmi da ufficio, prolungati per certe attività (la corrispondenza, o per esempio la risposta a questa intervista) nella fascia serale.

Però la mia giornata è molto spezzettata, quindi non è frequente che possa mettermi tranquillo a scrivere fin dal mattino. Ma vado avanti in modo abbastanza ordinato. Se scrivo saggistica, in generale si tratta di testi che prima presento nelle mie lezioni, quindi gli step sono naturali, legati a porzioni (capitoli, libri, singoli racconti…) delle opere in esame. Se è narrativa procedo fin quando mi accorgo di essere stanco – perché a quel punto l’impormi di stare alla scrivania non renderebbe.

Chi sono i tuoi complici?

Alcuni lettori abituali, amici che scrivono, o che sono riflessi nei personaggi – in quel caso mi pare bello coinvolgerli, sentire i loro pareri. A volte davvero illuminanti. Mentre in famiglia, per dire, non mostro i testi prima.

Per il mio passato, sono stati fondamentali gli scambi con Luca Rastello, l’autore di Piove all’insù e de I buoni, con cui ho condiviso tanto fin dal liceo, e in tempi più recenti con Valerio Evangelisti: sono scomparsi entrambi, e le loro assenze si sentono pesantemente. Spesso mi consulto con il buon amico Massimo Scorsone, una delle persone più dotte che io conosca, con cui ho curato il Drago Mondadori su Bierce, o con Alessandro Defilippi, psicoterapeuta e narratore elegantissimo. Un’altra persona che per me è molto importante e con cui mi confido è Lorenza Ghinelli, straordinaria amica con cui ho avuto l’onore di lavorare. Ora ho un dialogo fitto con Orazio Labbate, e ho trovato interlocutori importanti tra gli autori emersi con il call racconti Premio Calvino, dove sono da tre anni in giuria… un’occasione di enorme interesse perché si tratta di autori giovani, entusiasti e molto attenti alla “voce”, come la indica Labbate. E comunque la cerchia di Carmilla online, dove sono redattore, è preziosissima anche sul piano di consigli e confronti. Poi sicuramente nel dare questa risposta finisco con l’omettere qualcuno… ma credete (come diceva qualcuno) che non s'è fatto apposta.

Del resto ho sempre considerato la scrittura un fatto plurale, nel senso delle voci altrui (idee, dibattiti, provocazioni) che finiscono col sedimentarvi. L’autore non è mai solo, ha sempre infiniti debiti. Penso al mio amatissimo professor Caldi del liceo: i volumi su L’asino d’oro e l’Eneide sono dedicati a lui, per un debito affettuoso e fortissimo verso le sue lezioni. Noi siamo sempre prodotto (anche) di dialoghi: darne conto mi sembra giusto, in certi casi essenziale. Per dire, la mia Libera Università dell’Immaginario, con cui tengo i miei corsi di letteratura, è nata anche grazie agli aiuti e agli entusiasmi della scrittrice Cristiana Astori, il cui lavoro mi piace molto – conduce ricerche molto personali a monte dei romanzi, non ha nulla in comune con quell’“usato sicuro” troppo diffuso, dove spesso si spacciano come grandi originalità mere, banali variazioni di trama: non è il caso di Cristiana – e che ha rappresentato un enorme stimolo.

Aggiungi questo: in più occasioni ho scritto in tandem con altri, e attualmente per la Libera Università ho una giovane socia, Chiara Meistro, con cui porto avanti alcuni lavori. Con altre persone condivido altri scambi di idee e di sogni senz’altro produttivi. Chiaro che questo è possibile solo se c’è un certo tipo di scambio ideale, di tessuto comune: non necessariamente un allineamento totale, il condividere tutto, ma almeno una serie di punti forti e una certa conoscenza. Che ci sia anche un po’ di curiosità reciproca… Mentre ho l’allergia ai narcisisti sgomitanti, o che vogliono imporre a tutti i costi la propria presenza, a quelli che nei dibattiti social (da cui cerco di tenermi alla larga, ma ogni tanto ci si è trascinati) ti vengono addosso a piedi uniti, ai portatori di giudizi “grossi”. O a certi devoti – per esempio di Lovecraft, autore grande e strumentalmente manipolato – che per celebrare l’idolo sminuiscono tutti gli altri, con supponenza ignorante.

Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!

Sono sempre felice quando qualcuno mi scrive dopo aver letto i miei libri. È un dialogo preziosissimo, anche per capire meglio se la comunicazione funziona. Ovvio, non solo perché vellica l’ego – il che pure, a sollevarci dalle nasate della vita,  può essere un aiuto umanissimo. No, a volte si incontrano persone straordinarie, con cui nascono dialoghi durevoli. E per me la dimensione umana della scrittura vale persino più dei trofei letterari. Possono sembrare parole, ma chi mi conosce lo sa…

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

Beh, qui si entra (ride) nelle parole grosse. Non credo di dare un messaggio specifico, piuttosto cerco di offrire – con la saggistica – una divulgazione più alta possibile, del tipo di quella della Rai degli anni Sessanta e Settanta con cui sono cresciuto (io sono uno di quelli che seguiva il maestro Manzi), coi grandi sceneggiati, l’avvicinamento “teatrale” alla letteratura e i programmi come Spazio e Sapere, a volte per ragazzi, a volte per un pubblico generalista adulto, che per me sono stati fondamentali.

Credo poi profondamente nella solidità del discorso di Evangelisti sull’importanza della paraletteratura – almeno di quella intelligente e non prona – nell’affrontare quei grossi temi che i salottini borghesi sfuggono.  E nel discorso sull’immaginario (ne accennavo prima) che portiamo avanti in Carmilla online: l’immaginario come super-ambito dove oggi più che mai si misura la nostra capacità di essere liberi, di essere noi stessi, e invece il peso martellante, pervasivo delle coazioni sociali. Con alcuni di loro abbiamo anzi cercato di sviluppare questi temi in un paio di volumi a più voci per Mimesis (Immaginari alterati, 2018, e uno recentissimo sulla panoramica dell’opera di Evangelisti, L’insurrezione immaginaria a cura di Sandro Moiso e Alberto Sebastiani, 2023).

Certo, come nell’educazione dei figli (con mia moglie, ne abbiamo due), credo sia compito di chi scrive aiutare a ragionare e ricordare, anche a sognare senza farsi dettare i sogni: e la scrittura offre strumenti preziosi e molto specifici in questo senso. O almeno delle possibilità, per rendere il mondo un po’ migliore di quello in cui ci barcameniamo… Il tutto senza credere d’essere chissà chi, e seguendo testardamente la regola torinese dell’understatement: “esageruma nen”, non esageriamo.