Che la storia sia stata uno dei temi ricorrenti del FEFF 20 lo conferma il film di Ann Hui, Our Time Will Come, incentrato anch’esso, come i film coreani già recensiti, su un episodio della storia orientale poco conosciuto in Occidente: in questo caso, l’invasione giapponese di Hong Kong durante la Seconda Guerra Mondiale.

Piuttosto che il racconto epico dello scontro diretto con il nemico, con il piglio vivace e al contempo intimista che la contraddistingue Ann Hui opta per una narrazione apparentemente “periferica”, focalizzandosi non sulle battaglie dei leader uomini della resistenza cinese, ma su alcune donne che decisero di aiutare coscientemente i combattenti trasformandosi velocemente loro stesse in forze attive della resistenza in nome della libertà.

Basato su fatti realmente accaduti, il film si configura come un piccolo grande omaggio a queste eroine concentrandosi in particolare sulla storia di Fang Lan (Zhou Xun), che viene narrata alternando stralci di mockumentary in bianco e nero ambientate nella Hong Kong dei giorni nostri con interviste a Little Ben (Tony Leung Ka-fai), ex staffetta della resistenza nonché allievo di Fang Lan, a sequenze a colori sulle vicissitudini di Fang Lan stessa durante la guerra e sul modo in cui abbia plasmato la sua vita e le sue scelte ponendola contro la propria madre. L’occupazione giapponese infatti crea una netta linea di demarcazione fra la signora Fang (Deanie Ip) e Lan: la madre è infatti un’opportunista che accetta di ospitare clandestinamente il poeta e scrittore Mao Dun (Guo Tao) solo previo compenso, tollerando di mal grado l’intrusione del leader della resistenza Blackie (Eddie Peng) in casa propria per trarre in salvo lo scrittore verso un territorio non occupato dietro le montagne – e forse addirittura denunciando l’arrivo delle forze della resistenza ai giapponesi per non avere grane con i dominatori. Lan è invece una maestra, appassionata di letteratura ma anche di verità, che non può accettare passivamente quanto sta accadendo, il che comporta per lei rifiutare sia le parole della madre, secondo la quale “uccidere i giapponesi è un lavoro da uomini, perché loro sono forti” sia la proposta di matrimonio di Lee Gam-Ming (Wallace Huo), perché le sembra uno sciocco lusso di fronte al dovere di rimanere in vita e di poter dare il proprio contributo per salvare il paese – cosa che Lan che non esiterà a fare portando con sé pamphlet e volantini della resistenza rischiando la vita per diffondere le idee della liberazione. Lo scontro fra le due donne si snoda in maniera imprevedibile, arrivando a piegare la volontà della madre di fronte alla fierezza della figlia: ormai diventata parte ufficiale della resistenza su invito diretto di Blackie, Lan si assenta da casa sempre più spesso non solo per recapitare pamphlet o messaggi ma anche per fornire medicine e cibo agli altri combattenti. Esasperata e scettica, la madre inizialmente le dice: “Tu da sola, che differenza puoi fare?”, ma la risposta della ragazza: “Se tutti la pensassero come te, non ci sarebbe mai la vittoria” la spinge a rivedere il proprio punto di vista. Forse mossa dal rimorso, o forse incosciente dei veri pericoli che la guerra nasconde, la signora Fang decide di voler dare una mano anche lei alla resistenza senza coordinarsi con la figlia, cucendosi dei documenti segreti da far recapitare a Lan e agli altri soldati all’interno del vestito. Qualcosa però va storto e la signora Fang viene catturata. Lan a questo punto deve decidere se aiutare Blackie a far evadere la madre, rischiando di compromettere tutta l’operazione della resistenza se venissero catturati anche loro, o se abbandonare la madre al proprio destino di donna incosciente, che cerca di compiere un gesto eroico forse solo per lavarsi la coscienza, e non perché crede veramente nella possibilità di riscatto. Cosa prevarrà alla fine, il legame affettivo o la coscienza politica?

Forte soprattutto della convincente recitazione di Zhou Xun da una parte e di Deanie Ip dall’altra (la seconda, molte spettatrici e molti spettatori lo ricorderanno, fu già protagonista di quel capolavoro di levità che Anne Hui ci donò con A Simple Life), Our Time Will Come ci regala una riflessione atipica su Hong Kong in quanto possibile luogo di storia e di resistenza, non più spazio transitorio astorico e sospeso nel tempo come voleva la migliore tradizione new wave degli anni ’80 e ’90, forse nell’intento di riannodare il passato coloniale dell’isola al presente inscritto dentro la mainland in un continuum fatto di orgogliosa cinesità.

Tuttavia, il film di Ann Hui è privo di quel gusto nazionalista e compiaciuto che molti film storici cinesi tendono spesso ad avere in quanto finalizzati a reintrodurre la centralità culturale (e politica) della “terra di mezzo” nel mondo. Nel suo rievocare una pagina dimenticata della storia cinese ma soprattutto hongkonghese, l’intento di Ann Hui sembra essere piuttosto quello di spingere le persone a non cancellare dalla memoria la pacata fierezza con cui Hong Kong ha condotto la propria lotta per la libertà entrando nel solco della storia, quella stessa pacata fierezza che traspare dallo sguardo di Fang Lan e che contribuisce a rendere questo film una piccola gemma non priva di sorprese.