La lezione terminò con un versetto dal Vangelo secondo Matteo: «Raccogliete prima l’erba cattiva e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece mettetelo nel mio granaio. Parola del Signore». Jan Bossier, con occhi fiammeggianti, osservava i dodici discepoli seduti a semicerchio intorno a lui, determinato a trasmettere loro il fuoco che a suo tempo l’aveva pervaso. Avevano già percorso insieme un tratto del cammino, ma fare di loro dei veri combattenti avrebbe richiesto ancora tempo e forza di persuasione. Il tempo era relativamente tiranno perché un addestramento troppo lungo avrebbe attirato l’attenzione del nemico; la forza di persuasione, invece, di certo non gli mancava.

Jan Bossier sorrideva mentre uno a uno si avvicinavano a salutarlo e, in silenzio, lasciavano la stanza. Non era stato facile riunire un gruppo di giovani disposti a scrivere insieme a lui una storia nuova, che avrebbe incitato altri a scuotersi la polvere dai calzari e uscire dalla città. Attese che l’ultimo discepolo fosse andato via prima di accendere una sigaretta e affacciarsi alla finestra che dava su un piccolo e ben curato cortile. Tre ulivi nodosi sorgevano al centro di una croce formata da siepi di ligustro austeramente potate e delimitate da un sentiero lastricato di ciottoli. Negli spazi quadrati tra le braccia della croce e il sentiero, c’era la ghiaia. Il cortile non era un esempio di raffinatezza estetica; era semplicemente funzionale. Gli ulivi simboleggiavano la Trinità; la ghiaia la dolorosa strada verso la croce. I giovani entusiasti amavano i simboli e basta, il cortile era diventato il loro universo.

Jan Bossier si tolse le scarpe e i calzini, uscì camminando a piedi nudi, estrasse un rosario dalla tasca dei pantaloni e si abbandonò in preghiera sulla ghiaia tagliente, trattenendo il dolore finché non riuscì a prendere il controllo sui propri sensi e cadde in estasi. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala. Se il tuo piede ti è occasione di peccato, fattelo amputare. Le pietruzze spingevano in profondità nella pianta dei piedi, Jan Bossier non le sentiva e continuò a girare in tondo finché il sole non sprofondò dietro i tetti. Il crepuscolo disperdeva la luce mentre lui era assorto nei ricordi del passato, quando ancora viveva nel peccato. Per fortuna era tutto alle spalle. Il Signore l’aveva chiamato e messo al lavoro nel Suo campo. L’ex milionario arrogante era diventato uno strumento dell’Altissimo, gli era stato assegnato un compito che aveva ridato un senso alla sua vana esistenza.

Sul tavolo c’erano ancora una bottiglia di vino mezza piena e un piattino con delle quaglie fredde, i resti di un sontuoso pasto con cui il giorno prima avevano festeggiato il suo compleanno. Van In faceva colazione raramente, ma la vista di quella delizia attivò le sue ghiandole salivari. Gli uccelli gli ricordavano la scena di un film di Robin Hood: gli uomini di Sherwood intorno al falò che si rimpinzavano con starne e fagiani arrosto mentre fra Tuck dissolutamente brandiva una brocca di vino. Il paragone più o meno reggeva. Quelli che un po’ lo conoscevano lo consideravano uno scapestrato, alcuni trovavano perfino che somigliasse sempre di più a fra Tuck. Perché allora non avrebbe dovuto iniziare la giornata con vino e volatili? Da un recente esame del sangue risultava che la sua prostata versava ancora in condizioni accettabili, il tasso di colesterolo era entro i limiti e il fegato funzionava ancora quasi al cento per cento. Hannelore, dal canto suo, aveva deposto le armi, da tempo non si lagnava più dell’embonpoint del marito. Anzi. Trovava alquanto piacevole il cuscinetto in eccesso ed era vero che le persone paffute erano più gradevoli da frequentare. Van In era diventato più dolce e più calmo. Non si irritava più così spesso per ciò che in precedenza chiamava l’“intollerabile assurdità dell’esistenza”.

«Credo sia buono».

Anche lei era diventata più calma: i bambini avevano bisogno di meno cure rispetto a prima e, da quando era tornata a essere giudice istruttore, godeva di una certa libertà. Le zampe di gallina e le rughe sulla fronte si potevano ancora camuffare con il trucco e tornava ad avere l’aspetto di una venticinquenne. In realtà era troppo bello per essere vero.

«Ne vuoi un po’ anche tu?».

Strappò una coscetta dalla fragile carcassa, porgendogliela mentre beveva un sorso di vino. Don’t try this at home, direbbero gli americani. Vino a colazione, per fortuna non era ancora perseguibile.

«Guido non viene a prenderti?».

Erano le otto e venti, di norma avrebbe dovuto bussare già da cinque minuti, Hannelore non riusciva a ricordarsi una volta che avesse fatto tardi.

«Certo. Ben è partito stamattina presto per il Giappone per lavoro, e Guido gli ha dato un passaggio in aeroporto. Arriverà da un momento all’altro».

«Credevo che Ben vivesse di rendita».

«Ha cambiato idea».

Ben, il compagno di Versavel, aveva acquistato una fabbrica di cioccolato due mesi prima, e da allora considerava prospettive all’estero. Il Giappone era un mercato importante, ma anche molto delicato. Un buon prodotto non era sufficiente ad assicurare il successo. Trattare con l’Estremo Oriente richiedeva tatto, pazienza e buone maniere. Perciò Ben aveva deciso di prendere in mano le redini e di condurre personalmente le trattative. Per settimane aveva approfondito la cultura giapponese cercando di fare proprio il loro galateo, in modo da non potersi rimproverare nulla nel caso i meeting, per una ragione o per l’altra, non avessero fruttato alcun risultato.

«Un uomo d’affari rimane sempre un uomo d’affari».

Afferrò il giornale, lesse i titoli in prima pagina, lanciò un’occhiata fugace alle foto. C’era la scomparsa di una quattordicenne dopo una notte fuori, una stella del calcio con una distorsione al piede e il governo che annunciava nuovi provvedimenti per far fronte alla crisi. La cronaca sulla scomparsa della ragazza occupava il sessanta per cento della pagina; l’infortunio della stella del calcio il trenta; le misure di risanamento del governo, che sarebbero costate a ogni cittadino circa duecento euro l’anno, il dieci. In seconda pagina c’era il solito articolo d’opinione scritto da un giornalista che sistematicamente sosteneva un’altra tesi rispetto al lettore medio, e bisognava andarselo a cercare il pezzo su un attentato dinamitardo che il giorno precedente era costato la vita a più di quaranta iracheni. Van In si chiese, in nome di Dio, perché comprasse ancora il giornale.

«Finalmente».

Guardò l’orologio, si alzò di scatto dalla sedia e si diresse verso la porta d’ingresso mentre Hannelore, come al solito, versò una tazza di caffè per Versavel. Si sbagliavano entrambi.

«Cosa ci fai qui?», lei sentì chiedergli.

Non era stato Versavel a bussare, ma un giovane agente. Sembrava un po’ schivo. I colleghi lo avevano avvertito dell’umore mattutino del commissario. Si era preparato al peggio ma andò meglio del previsto. Van In lo invitò a entrare e il giudice istruttore gli offrì una tazza di caffè.

«L’ufficiale di guardia mi ha incaricato di venire a prenderla. L’ispettore capo Versavel ha telefonato per avvisare che avrebbe fatto tardi, ha forato una gomma in autostrada», disse il giovane agente in modo formale.

«Versavel ha chiamato l’ufficiale di guardia?».

Van In afferrò il suo cellulare dal tavolo della cucina, accese il display e vide due chiamate perse.

«Hai sentito qualcosa?».

«No», rispose Hannelore.

Prese il telefono e controllò il piccolo pulsante sul lato.

«Ieri hai tolto la suoneria, Pieter».

Van In si era per forza di cose rassegnato alla dittatura dei moderni mezzi di comunicazione, ma odiava essere disturbato durante la visione di un film, specialmente se l’emittente pubblica trasmetteva un capolavoro come La vita è bella, un inno all’amore incondizionato e all’indistruttibile ottimismo, una storia totalmente inverosimile, come lo erano anche le favole. Il giovane agente sorseggiava educatamente il caffè mentre si guardava intorno con discrezione. Circolavano le storie più assurde sul commissario Van In. Il bicchiere di vino e l’ossicino di quaglia rosicchiato sembravano confermare quelle storie, ma non trovava nulla di anormale in quello che Van In faceva. Anzi. Salutò con un bacio e una carezza la moglie e i bambini prima di indossare la giacca, e con un ampio sorrisetto disse: «Dai ragazzo, dobbiamo scappare!».

Camminarono lungo il Vette Vispoort in direzione della Moerstraat, dove era parcheggiata l’auto. Faceva ancora fresco, ma non proprio freddo. I loro passi riecheggiavano secchi sui ciottoli secolari.

«Non è urgente?», chiese Van In prima di salire.

Le ultime settimane erano le più tranquille da anni. Perfino le teste calde che nei weekend si recavano all’Eiermarkt per creare scompiglio sembravano essere tornate sulla buona strada. Molti colleghi avevano colto l’occasione per prendere le ferie arretrate. A Bruges regnava la pace. Il giovane agente non sapeva bene cosa rispondere. Nessuno gli aveva detto che fosse urgente, in fondo non sapeva perché l’ufficiale di guardia gli avesse affidato il compito di andare a prendere Van In, ma sembrava proprio stupido anche ammetterlo.

«Cosa è urgente, commissario?».

Van In sorrise. Il ragazzo gli piaceva. Una banale richiesta del sindaco veniva trattata con priorità, una querela di un disoccupato di vecchia data di solito finiva nel cestino. Non riusciva però a immaginarsi che l’ufficiale di guardia l’avesse convocato senza un valido motivo.

«Va bene, vedremo!».

Abbassò il finestrino e accese una sigaretta senza preoccuparsi degli sguardi furiosi dei passanti. Non si rendevano conto che il motore diesel della vecchia Golf produceva più polveri sottili che centinaia di pacchetti di sigarette? Ovviamente no. Era la stessa gente che credeva che gli antibiotici potessero guarire l’influenza.

«Sei da molto nella polizia?».

«Due mesi».

«Posso sapere anche il tuo nome?».

«Achilles Beirens».

«Tze», disse Van In.

Non si domandò perché i genitori di Achilles l’avessero chiamato così. Ognuno era libero di dare ai propri figli un nome insolito e lui trovava che Achilles fosse molto originale.

«La faccio scendere davanti alla porta?».

«Va bene, Achilles».

Van In fece ancora un tiro di sigaretta, lanciò il mozzicone dal finestrino, spalancò la portiera e scese. La frescura mattutina nel frattempo aveva lasciato il posto a una brezza tiepida, in fondo c’erano ancora buone probabilità che sarebbe stata una giornata di sole nonostante le cupe previsioni. Van In salì rapidamente le scale e i suoi polmoni protestarono a malapena. Era solo un piano. L’ufficiale di guardia lo accolse con un ampio sorriso quando lui entrò in centrale. Altri tre ispettori in divisa erano ancora lì presenti. Due tenevano attentamente d’occhio i monitor mentre bevevano caffè e leggevano il giornale, il terzo era al telefono. L’ufficiale di guardia aveva trentotto anni, padre di due bambini e orgoglioso proprietario di uno stabile sulla Potterierei. Aveva studiato Criminologia, scalato otto volte in bici il Mont Ventoux e un paio di volte l’anno andava a fare immersioni nel Mar Rosso. Per farla breve, un uomo moderno con mens sana in corpore sano. Era soltanto un po’ lento di comprendonio, astemio e senza il minimo senso dell’umorismo. Van In lo salutò con un secco cenno del capo.

«Jack lo squartatore è di nuovo in circolazione?».

L’ufficiale di guardia lo osservò come se Jack lo squartatore fosse il soprannome di un pilota di Formula1, e per uno che aveva studiato criminologia…

«Credo sia urgente, altrimenti non mi avresti fatto venire a prendere», precisò Van In. I tre ispettori presenti sorridevano sotto i baffi. Così come Van In, trovavano che il loro superiore non fosse una cima e guardavano l’inatteso confronto come una piacevole pausa.

«Si tratta di una strana faccenda», disse l’ufficiale.

«Già, lo immaginavo. Fammi indovinare. La moglie del sindaco è stata assalita da un extraterrestre».

Anche l’ufficiale cominciò ad accorgersi che Van In si faceva beffe di lui, ma teneva saggiamente la bocca chiusa perché conosceva la reputazione del commissario. Un suo commento poteva bastare per farlo esplodere, ma nemmeno tacere era sicuro. C’era il pericolo che Van In potesse perdere la pazienza, quando non otteneva risposta.

«Qualcuno vorrebbe dirmi, per favore, perché sono qui?».

«In effetti si tratta proprio di una donna», rispose uno degli ispettori presenti. «Stamattina presto una pattuglia notturna ha trovato una donna nuda nel Pastoor Van Haeckeplantsoen».

«Che ci facevano lì?».

Il Pastoor Van Haeckeplantsoen, un tempo, era un giardino selvatico con un singolare assortimento di alberi piantati dai primi proprietari di una maestosa villa sul Gulden Vlieslaan di cui il giardino faceva parte. C’erano ippocastani, tassodi, olmi inglesi, noci giapponesi e rovi di more nere. La fitta vegetazione e lo stagno centrale davano al parco un tocco misterioso, perfino gli abitanti del quartiere andavano di rado lì a passeggiare a causa dell’atmosfera opprimente.

«Abbiamo ricevuto una chiamata», disse l’ufficiale. «Ha telefonato un uomo che aveva portato a spasso il cane».

«L’hanno stuprata?».

«Non ne ho idea, è completamente sotto shock».

«Ha rilasciato qualche dichiarazione?».

«No, i colleghi che l’hanno trovata nel parco pensano che sia sotto l’effetto di stupefacenti».

«Dov’è adesso?».

«In cella».

Van In accese furiosamente una sigaretta, nessuno aveva il fegato di richiamarlo, e diede all’ufficiale il compito di accompagnare la donna nel suo ufficio.

«E di’ anche ad Achilles di venire!».

Quattro paia d’occhi lo fissarono sbalorditi. Achilles Beirens era appena entrato in servizio, il ragazzo non aveva alcuna esperienza, cosa intendeva fare adesso Van In? Non osarono chiederglielo. Uno degli ispettori alzò la cornetta e chiamò il superiore di Beirens.

Van In annuì, si voltò e uscì dalla centrale. Interrogare una donna da solo era oggigiorno una questione delicata. Conosceva un paio di colleghi che, facendolo, si erano tirati addosso un sacco di grane. Una querela per intimidazione sessuale non veniva mai presa alla leggera: spesso chi interrogava non la spuntava, cosa che Van In voleva evitare. Con un testimone non poteva succedergli niente.

I cattolici professavano una religione pragmatica comoda. Chi peccava poteva sempre contare sul perdono. Perfino un pluriomicida che mostrava pentimento sul letto di morte, poteva rallegrarsi al pensiero di un posto in paradiso.

Maxime Corneille non aveva peccato, ma c’era mancato poco. La donna che era uscita con lui, e che evidentemente in mattinata si era svestita in salotto, era sparita senza lasciare tracce. Entrambi avevano alzato il gomito e, nonostante gli studiosi sostenevano che le donne si ubriacassero prima degli uomini, lei era riuscita a farlo sbronzare sottobanco. Si era addormentato sul divano svegliandosi due ore dopo con i postumi della sbornia, accorgendosi che lei non c’era più.

Andò in bagno arrancando e ficcò la testa sotto il rubinetto. L’acqua gelida alleviò il dolore, ma non riportò indietro i ricordi di quella che doveva diventare una serata decadente. Afferrò l’asciugamano dalla mensola, si asciugò i capelli strofinandoli e si incamminò verso il salotto. Non poteva essere andata lontano, perché aveva lasciato lì i vestiti, ancora sparsi per terra. Gridò il suo nome ma non ci fu alcuna risposta sebbene la casa fosse relativamente piccola: un soggiorno con salotto annesso, un bagno moderno, due camere da letto e un’ampia mansarda. Maxime aveva comprato la villetta a schiera un paio d’anni prima come pied-à-terre, nel caso una riunione si fosse protratta o se avesse bevuto troppo per guidare in sicurezza fino a casa. Almeno, così aveva fatto credere alla moglie. La villetta a schiera arredata in maniera accogliente serviva più da nido d’amore che come luogo di riposo. Maxime salì le scale, controllò le camere da letto e poi di nuovo su per le scale verso la mansarda. Il pensiero che si fosse impiccata a una trave gli fece venire la pelle d’oca. Gli rimase un oscuro presentimento. Tornò in una delle camere da letto e aprì l’anta dell’armadio dove lasciava sempre appese due camicie e un vestito di riserva. Tutto era ancora lì, compreso l’accappatoio nel bagno. Maxime andò in cucina, si versò un bicchiere di vino scuotendo la testa e accese una sigaretta. Non poteva immaginare che fosse andata via nuda. Si sedette, afferrò il cellulare e cercò di chiamarla, ma si rese conto che quello di lei giaceva per terra tra il reggiseno e le mutandine. Che imbecille. Chi gliel’aveva fatto fare di sedurla? E se la scappatella fosse trapelata facendo crollare la sua facciata meticolosamente costruita? Le conseguenze erano inimmaginabili. Lo avrebbero messo alla gogna e chissà quale impatto finanziario avrebbe avuto il suo atto sconsiderato. E tutto ciò per un paio d’orette di divertimento senza nemmeno arrivare al dunque. Si chinò, raccolse il cellulare e consultò la rubrica nella speranza di trovarvi un nome che conosceva, ma non trovò nessuno a cui potersi rivolgere. Maxime non guardava spesso le serie poliziesche in tv, ma di una cosa era certo: nessuno poteva accusarlo di nulla senza prove materiali. Tornò in cucina, prese un sacchetto della spazzatura e racimolò i vestiti di lei ficcandoli dentro insieme al cellulare. Poi riempì un secchio d’acqua calda e, come un invasato, cominciò a lavare con una spugna tutto ciò che lei eventualmente aveva toccato. Anche il bagno venne sottoposto a una minuziosa ripulita, proprio come il pavimento e il divano dove si erano strusciati. La fortuna nella sfortuna era che non avevano fatto sesso, altrimenti avrebbe dovuto portare le lenzuola e la trapunta in lavanderia. La sua educazione dai gesuiti gli fu d’aiuto. Lavorava accuratamente e con metodo, la possibilità che qualcuno potesse ancora ritrovare una traccia della presenza di lei era davvero remota. Maxime si lasciò sprofondare nel divano, accese una sigaretta e chiamò sua moglie.

«Rimango ancora un po’ a Bruges, tesoro, per concludere le trattative. Ci vediamo stasera. Prenoto un tavolo al Ter Spinde?».

Maxime era sicuro di poter capire dalla sua voce se sospettava qualcosa, ma sembrava normale. Tirò un sospiro di sollievo. Fino a quel momento non c’erano nubi all’orizzonte. Riprese il cellulare dal sacchetto della spazzatura e si diresse verso l’auto parcheggiata poco lontano. Si ricordava vagamente di un contenitore adibito alla raccolta dei vestiti nel parcheggio di un supermercato nei dintorni, il che gli sembrò una soluzione sicura.

Due agenti condussero la donna nella stanza degli interrogatori. Van In, rilassato, sedeva al tavolo, mentre il giovane Beirens era in un angolo della stanza come se cercasse di rendersi invisibile. Proprio come i suoi colleghi, non capiva come mai il commissario Van In volesse coinvolgerlo nell’interrogatorio e non osava nemmeno chiederglielo.

«Si segga, signora!».

Lei lo fissava in maniera schiva, con grandi occhi lucidi. Van In le dava una quarantina d’anni. Era ben fatta, capelli castani lunghi e ondulati, bei polpacci muscolosi. Alcuni uomini l’avrebbero considerata un po’ androgina. Van In trovava quell’aspetto attraente. I suoi occhi grigio-verdi lo affascinavano perché irradiavano energia ferina e appetito sessuale. Indossava un accappatoio logoro e delle ciabatte che uno degli agenti aveva saputo rimediarle. Eppure l’indumento senza forma non riusciva a nascondere del tutto i suoi contorni seducenti. Van In non riusciva a credere che il suo corpo nudo avesse lasciato indifferenti i suoi uomini, distolse lo sguardo e cercò di pensare a qualcos’altro.

Achilles Beirens non sapeva esattamente come comportarsi. Guardava il soffitto e la punta delle proprie scarpe a intervalli alterni, con le mani dietro la schiena e le dita intrecciate.

«Cominciamo dall’inizio», disse Van In. «Come si chiama?».

Gli occhi di lei, lucidi e spalancati, fissavano il vuoto, come se avesse avuto un’apparizione. Il labbro inferiore le si mosse verso il basso. Dava l’impressione di essere confusa. Van In valutò l’opportunità di chiamare un assistente sociale perché non voleva rischiare, in seguito, di essere accusato di aver agito con negligenza.

«Si sente bene, vero?».

Lei continuava a fissarlo come se le sue parole non riuscissero a raggiungerla. Capiva quello che diceva?

«Prende farmaci?».

Nel rapporto degli agenti che l’avevano trovata nuda nel Pastoor Van Haeckeplantsoen risultava che non l’avevano sottoposta ad alcun alcol o drug test, perché la donna non mostrava segni esteriori di intossicazione.

«Je m’appelle Berthe Courrière», disse improvvisamente.

«Porca miseria!».

Van In imprecò. Se non parlava nederlandese, doveva trovare un interprete giurato, e poteva anche volerci un po’. Afferrò il telefono e le chiese se gradiva del caffè. Achilles Beirens reagì immediatamente, proponendosi gentilmente di andare a prenderlo. Nel momento in cui aprì la porta della stanza degli interrogatori, entrò Versavel. Van In era seduto al tavolo con la cornetta in mano.

«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore», disse Versavel senza mezzi termini.

«Non ti starai mica lagnando del mio nuovo assistente?».

«Certo che no. Ho solo constatato che non perdi tempo».

«Più invecchi, più diventi geloso. Siediti e ascolta».

Rimbeccò Versavel in due parole, poi chiamò un interprete giurato e si accese una sigaretta. Berthe Courrière voltò il capo in direzione della fiammella dell’accendino come un cobra che si vede passare un topo davanti. Senza bisogno di chiedere nulla, Van In fece scivolare il pacchetto e l’accendino verso di lei, che disse: «Merci, monsieur!».

«Mi sembra una donna garbata».

«A ogni modo, il suo nome sembraaltolocato».

Van In, all’inizio, aveva pensato che avesse preso parte a qualche festino lascivo o fosse stata messa alla porta da un cliente insoddisfatto, ma doveva dare ragione a Versavel. Sembrava ben educata, non il tipo che si fa pagare dagli uomini. Anzi. Le sue mani erano perfettamente curate e chiaramente non andava da un parrucchiere dilettante, questo saltò agli occhi persino a Van In.

«Sono curioso».

L’interprete giurato, un insegnante in pensione, aveva promesso di arrivare il prima possibile, era soltanto questione di capire quanto quel prima possibile sarebbe durato. Non potevano fare altro che attendere pazientemente il suo arrivo.

La vita può essere difficile, ma anche straordinariamente generosa. Maxime Corneille era nato con la camicia. Suo padre all’epoca aveva fatto fortuna con materiali da costruzione, aveva costruito un impero e lasciato al suo unico figlio un’impresa che valeva più di trecento milioni di euro. Volgarmente la gente parlava di guadagnare, ereditare e sperperare, e la gente di solito aveva ragione. Una fortuna guadagnata veniva spesso sperperata dai posteri, ma c’erano anche delle eccezioni. Maxime Corneille aveva trasformato l’azienda del padre in un’impresa moderna e si era specializzato nella costruzione di case passive ancor prima che diventasse un concetto alla moda, con il risultato che l’azienda era adesso quotata in borsa e aveva sedi in più di venti paesi. La scappatella con Berthe Courrière era un insignificante neo sul suo blasone immacolato, avrebbe fatto di tutto per cancellarlo in profondità perché per il mondo esterno, oltre a essere un manager di successo, era anche un punto di riferimento per quanti portavano in palmo di mano gli antichi valori cristiani tradizionali. Una piccola avventura extraconiugale avrebbe potuto arrecare parecchi danni a quella reputazione, oltre a costargli un sacco di clienti. Fortunatamente non si sarebbe arrivati a tanto. Posteggiò la sua Tesla s p85d nel parcheggio di un supermercato tedesco, afferrò il sacchetto di plastica con gli indumenti di Berthe Courrière e li gettò nel contenitore per vestiti usati, salì di nuovo in auto e accese la radio. Un frivolo spot pubblicitario sull’assicurazione funeraria venne trasmesso prima del notiziario delle undici. Il battibecco in corso sull’età del prepensionamento e la distorsione al piede della regina erano i punti salienti del giornale radio. Poi c’era un servizio sullo stress quotidiano da traffico e le inevitabili notizie sportive. Il conduttore del notiziario non fece parola di una donna nuda nel centro di Bruges. Di conseguenza Maxime non si domandò se le fosse capitato qualcosa, partì dal presupposto che fosse riuscita a cavarsela e che in quel momento fosse in treno diretta a Parigi. Brum. Mise in moto la macchina. Lasciò il parcheggio sotto lo sguardo ammirato di diversi clienti, facendo rotta verso l’Abbazia, dove aveva un appuntamento con Jan Bossier, capo spirituale del Movimento, un’organizzazione di cui era stato uno dei promotori. All’inizio, riunire un numero di persone disposte incondizionatamente a impegnarsi per un antico ideale era costato molta energia, tempo e forza di persuasione, eppure alla fine ce l’avevano fatta. Bossier, da un po’ di tempo, disponeva di uno zoccolo duro di seguaci che avevano incondizionatamente giurato fedeltà alla croce ed erano disposti a uccidere in nome del Signore. Gli ingenui coglioni credevano di non avere altra scelta che minacciare di infliggere una battuta d’arresto alla dissoluta decadenza dell’Occidente. Secondo lui, il tempo in cui i medici untori potevano arrecare sollievo era passato.

Maxime parcheggiò la Tesla nel garage sotterraneo e andò a piedi verso lo stabile dove si trovava l’Abbazia perché voleva evitare che qualcuno riconoscesse la sua auto e potesse associarlo al Movimento. L’Abbazia si trovava sulla Annuntiatenstraat. Bossier aveva acquistato il fabbricato a un prezzo conveniente da una famiglia della nobiltà caduta in disgrazia, facendolo discretamente ristrutturare come una sorta di monastero, completo di cortile e chiostro. Estrasse una scatoletta dalla tasca dei pantaloni, la puntò verso il cancello d’ingresso e premette un pulsante. Il cancello si aprì oscillando e lui scivolò dentro inosservato. Davanti all’edificio principale c’era un parcheggio di ghiaia battuta di cui non faceva uso quasi mai. Sulla facciata erano appoggiate quattro biciclette. Non dovette bussare. Jan Bossier teneva la porta aperta per lui e gli strinse la mano.

«Ti aspettavo prima», disse.

«Un evento inatteso mi ha trattenuto, ma il Signore è venuto tempestivamente in mio aiuto».

«Sia lodato il Suo nome!».

«Infatti», ribatté sorridendo Maxime. «Sia lodato il Suo nome!».

Jan Bossier era stato milionario e ateo finché il Signore l’aveva richiamato all’ordine dopo che sua moglie e sua figlia erano morte durante una rapina in auto nel Sud della Francia. Aveva sperperato la maggior parte della sua fortuna nei casinò e, durante un controllo di routine, i medici gli avevano diagnosticato un cancro. Il Signore l’aveva scaraventato da cavallo proprio come Paolo di Tarso. Gli era caduta la benda dagli occhi, si era convertito e rivelato come il più infervorato paladino del Movimento. Aveva ottenuto la guida dell’Abbazia e da allora era responsabile di reclutare e addestrare nuovi seguaci.

«Posso offrirti qualcosa? Una tazza di tè alla menta o preferisci dell’acqua?».

«Va bene l’acqua, Jan».

Attraversando il chiostro si diressero in un ambiente arredato in maniera sobria che si affacciava su un cortile interno. Vi erano un tavolo di quercia rettangolare e quattro sgabelli. A una parete era appesa una croce formata da due rami nodosi. La luce soffusa che piombava all’interno attraverso le vetrate creava un’atmosfera metafisica.

«Credo che siamo pronti», disse Bossier mentre riempiva fino all’orlo le tazze di ceramica con l’acqua ionizzata dell’acquedotto. «Ho rivisto tutti i dettagli del piano, penso non ci sia nulla che possa andare storto».

«Sono tutti disposti a eseguirlo?».

«Non vedono l’ora, Maxime. Nessuno è più in grado di aspettare. I tempi sono maturi, l’ora è giunta».

«Allora brindo a quello».

Maxime afferrò la tazza e bevve un sorso d’acqua fresca e limpida. Doveva ammettere che era piuttosto buona.

L’interprete indossava un vestito che un tempo probabilmente doveva essere stato abbastanza costoso, ma ora mostrava l’elastico per via dell’usura. Il tessuto unto splendeva, il suo corpo emanava un odore tipico degli uomini anziani, un misto di carta ammuffita e un vecchio straccio, ma dava un’impressione molto accattivante. Una calorosa stretta di mano, un sorriso dolce, una voce sonora. Van In lo presentò a Berthe Courrière e i suoi occhi scintillanti rivelarono che non disdegnava la bellezza femminile. Disse di sentirsi onorato di fare la sua conoscenza, si sedette e prese con gratitudine la tazza di caffè che gli porse Van In.

«Potrebbe chiederle cosa ricorda di ieri e della notte scorsa?».

«Certo».

Ne scaturì una civile conversazione facile da seguire. L’interprete mise Berthe a proprio agio, scusandosi tanto per eventuali domande indiscrete e facendole i complimenti per il colore dei suoi occhi. Il ghiaccio sembrava rotto. Berthe Courrière aggrottò la fronte concentrandosi sull’ultima fase della sua visita a… Ci volle mezzo minuto prima che le venisse in mente il suo nome.

«Si chiama Maxime, in precedenza l’avevo già incontrato una volta a Parigi, a un ricevimento. Un uomo gentile, molto raffinato e cortese, ma un uomo è pur sempre un uomo», aggiunse con un sorriso eloquente. «Mi ha dato il suo numero e abbiamo fissato un appuntamento ieri, quando sono arrivata a Bruges. Abbiamo bevuto qualcosa e mi ha invitato a continuare la serata nel suo pied-à-terre. Abbiamo bevuto ancora qualcosa e poi…».

Si ricordava ancora di essersi tolta i vestiti e di essersi sdraiata accanto a lui sul divano, ma non quello che era successo dopo. Sapeva soltanto che un agente in uniforme l’aveva scossa dal sonno e un altro le aveva messo la sua giacca sulle spalle. L’interprete faceva del suo meglio per carpirle più dettagli, imbattendosi in una cortina di nebbia impenetrabile. Era difficile capire se stesse mentendo o raccontando la verità. La conversazione durò un’ora e mezza, ma non fu loro di grande aiuto.

«Potrebbe anche chiederle dove alloggia?».

«Hotel Martin», rispose lei con accento francese.

Tese la meno verso la tazza di caffè che era sul tavolo davanti a lei, per cui la manica dell’accappatoio si alzò scivolando per una decina di centimetri. Van In, che fino a quel momento aveva seguito attentamente ogni suo movimento, guardò Versavel con uno sguardo stile “l’hai-notato-anche-tu”. Aveva un piccolo pentacolo tatuato all’interno dell’avambraccio.