2008, dintorni di Shenmu, provincia dello Shaanxi, Cina. Il venditore ambulante Guoren (Hui Wangjun), dilaniato dal ricordo del figlio ormai morto, si ritrova suo malgrado a dover gestire una convivenza forzata con un bambino dispettoso, Maodou (Bai Zeze). Abbandonato a se stesso dopo la morte improvvisa della nonna e con in testa il desiderio di rivedere il padre, da tempo impegnato come operaio edile a Shenmu, Maodou decide di mettersi alla ricerca del genitore per andare a vivere con lui. Sperando di arrivare più facilmente a destinazione, il bambino si nasconde sul camioncino di Guoren, ma per farsi luce durante il viaggio clandestino accende dei petardi, caricati lì dall’uomo per venderli in occasione del capodanno cinese. Un guasto improvviso al camioncino costringe Guoren a fermarsi e a scoprire non solo che la merce da lui trasportata è ormai andata in fumo, ma che è stato un piccolo intruso a causare il disastro. Per placare l’ira crescente dell’uomo, Maodou gli propone di aiutarlo a cercare il padre nella ditta di costruzioni di Shenmu di cui conosce l’indirizzo in modo che, una volta incontrato l’uomo, Guoren potrà riavere indietro i soldi della merce bruciata. Scettico ma fermamente intenzionato a recuperare il danno subito, Guoren accetta la proposta tutelandosi con un accordo scritto e apponendovi l’impronta digitale di Maodou come sigillo di garanzia.

Inizia così un improbabile viaggio nei cantieri edili tra lo Shaanxi e il Gangsu, intervallato da fiere, scontri con malavitosi locali venuti a riscuotere il pizzo dall’ambulante sconosciuto che non conosce le regole, rese dei conti con un passato doloroso, continui guasti al camion e il debito monetario di Maodou che si fa ogni giorno più alto per via del suo brutto carattere. Ma insieme al debito cresce anche l’affiatamento fra i due, improbabili padre e figlio incastrati fra la brutale spietatezza della vita e l’umano bisogno di affetto.

Forse non particolarmente originale ma onesto nel voler raccontare una storia periferica, lontana dal clamore patinato e frenetico delle metropoli cinesi, Like Father and Son di Bai Zhiqiang ha sicuramente il merito di cercare di narrare la cruda esistenza dei cinesi delle campagne e della cosiddetta liúdòngrénkŏu 流动人口 (popolazione fluttuante), ossia i migranti senza un certificato di residenza urbano stabile che si spostano di città in città in base a dove trovano lavoro. Significativa in tal senso è una scena in cui vediamo alcuni aspiranti lavoratori in fila e con in mano un cartello con su scritto diănzigōng电子工 (elettricista), sperando che il responsabile del cantiere edile venuto a “rastrellare” operai scelga proprio loro fra la marea di candidati che si accalcano davanti al suo furgoncino. Indicativa di questa volontà di ritrarre un universo fatto di espedienti e precarietà è anche la sequenza in cui un altro ambulante chiede a Guoren di “prestargli” il bambino per usarlo come esca mentre chiede l’elemosina e far impietosire la gente, offrendogli in cambio 100 yuan per il favore.

Inoltre, il film riflette anche sulle possibili conseguenze socio-culturali di una vita fluttuante, soprattutto sui figli lasciati indietro dai migranti in cerca di fortuna e visti da chi si vede costretto a badare a loro come un peso inutile. A volte, questi bambini sono destinati ad essere abbandonati dai genitori che si rifanno una vita altrove o, nel peggiore dei casi, ad essere venduti. In più occasioni, Guoren dichiara senza mezzi termini a Maodou che suo padre si è probabilmente risposato, e che trovarlo è così difficile perché in realtà ha deliberatamente cancellato le proprie tracce, dimenticandosi del figlio di proposito. In un’altra occasione, quando messo a confronto con l’indifferenza del capo villaggio nei confronti della sorte del bambino, Guoren non manca di insinuare come sbarazzarsi di Maodou potrebbe rappresentare per il responsabile del villaggio l’unica via di uscita (anche se palesemente illegale).

Non da ultimo, Like Father and Son trova il suo punto di forza nello sviluppo del rapporto fra due persone ruvide e senza legami che si ritrovano ad affrontare insieme la vita nuda del cane mangia cane, incappando in incidenti ed ingiustizie che ci mostrano una Cina molto più realistica di quella ritratta in tanti film di ambientazione metropolitana. Certo, vi sono inevitabilmente le consuete avvisaglie di deferenza verso il messaggio forzatamente ottimistico imposto dal governo ad ogni pellicola cinese post-2018 (ossia dopo che Xi Jinping è diventato Presidente a vita), pena la mancata approvazione ufficiale del partito suggellata dal cosiddetto “sigillo del drago”: non a caso, centrale nel film è il messaggio che, per riscattarsi (e dunque incarnare il “sogno cinese” tanto caro al Presidente), Maodou dovrà scegliere di studiare, non certo ricalcare le orme del padre biologico, perso dentro un’esistenza “fluttuante”, né quelle del padre temporaneo, rinchiuso in ricordi misti a rancore e senza una vera via d’uscita dalla continua precarietà.

Seppur con dei limiti, Like Father and Son cerca di aggirare le esigenze ideologiche del partito narrandoci a modo suo e senza clamore la spietatezza della vita quotidiana, dove i passanti fingono gentilezza solo per ricavare dei soldi da un evento inaspettato, rivelando tutta la loro meschinità subito dopo (“Vi meritate di morire congelati. Portatevi i soldi nella tomba”, dice un uomo a Guoren e Maodou dopo essersi visto negare i soldi chiesti per aiutarli a sbloccare il camioncino), non senza ricordarci come il denaro finisca per impadronirsi del cuore delle persone, spingendole verso sogni per lo più vani e irraggiungibili.