Marina Marazza è una grande conoscitrice di questo periodo storico e delle vicende che ruotano attorno al personaggio principale del romanzo Il segreto della Monaca di Monza: il lettore se ne avvede presto. La storia si apre in una domenica di luglio del 1609, ma è solo una prolessi che annuncia al lettore le disposizioni del vicario criminale:

“Ripetuto il nome di Cristo diciamo, comandiamo e statuiamo di condannare la suddetta monaca per castigo e penitenza a perpetua prigionia nel monastero di Santa Margherita, dove in piccolo carcere venga rinchiusa, la cui porta si abbia a serrare mediante muro formato di calce e sassi”.

Verrà quasi murata viva, insomma. E questa non sarà l’unica esecuzione in una città che subiva il dominio della cattolicissima Spagna, come era la spietata Milano del XVII secolo.

Il romanzo procede con un salto indietro nel tempo, all’estate del 1597, quando suor Virginia Maria de Leyva non immaginava ancora dove la sorte amara l’avrebbe precipitata. Obbligata a una vita di clausura per imposizione prepotente della famiglia – i conti di Monza, origine spagnole –, rimproverava all’occorrenza le novizie ed eseguiva il suo dovere, pur concedendosi qualche piccola trasgressione. Finché avviene il passaggio fatidico, “La sventurata rispose” di manzoniana memoria. A chi rispose? Cominciò a trattenersi con Giovan Paolo Osio, della potente famiglia di Usmate, un gran gaudente, più colto e raffinato di quanto ce lo immaginiamo leggendo di lui nei Promessi Sposi: di sicuro, a un certo punto, innamorato di questa donna che gli si consegna anima e corpo, infrangendo tutti i divieti.

Ma questo libro non parla solo di un amore proibito. Perché nel monastero i segreti si accumulano e rischiano di essere scoperchiati, ragion per cui a peccato si aggiunge altro peccato, in una discesa nera dove contesto e mentalità hanno il loro peso. E dove anche il posto più protetto può nascondere qualcosa di orrorifico:

“C’era una cappella affrescata dove le suore morte venivano poste su seggiole di pietra forate, sotto le quali era sistemato un grosso vaso. Serviva a raccogliere i liquidi e i fluidi della decomposizione delle carni, perché le monache venivano lasciate lì a marcire lentamente. Le altre suore si riunivano nella cappella a pregare, nel tanfo insopportabile che si attaccava alle vesti, alla pelle, entrava nella bocca, nel naso, faceva lacrimare gli occhi e rivoltare le budella. Era una salutare mortificazione constatare di giorno in giorno lo scempio operato dalla morte”

L’autrice ha tessuto le pagine partendo da documenti, fonti dirette e indirette che ha spulciato e assimilato con la pazienza certosina che dispensa solo chi è appassionato. Ci ha così regalato – giocando magistralmente tra la veridicità dei dati e la finzione che il narrato consente – uno spaccato di società chiusa, retriva, anche colpevole, ma pur piena di sentimento. L’ha fatto con una bella scrittura corposa e ricca, citando all’occorrenza date e testimonianze e la sensazione, per tutto il libro, è che finalmente qualcuno competente abbia di nuovo raccontato una storia importante, portata alla ribalta da Manzoni e mai dimenticata negli ultimi due secoli.