Ai giorni nostri

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Mi sono svegliata presto stamattina. Gli uccelli cantano a squarciagola in questa alba di tarda primavera. Nel silenzio della campagna il loro canto buca l’aria. Mi è arrivato attraverso la finestra aperta, insieme a un sentore di miele. Profumo di ginestre.

Seduta sotto l’unico olmo sopravvissuto, sorseggio il primo caffè della mattina. L’aria è fresca e la terra non ha ancora dismesso le perle del vestito da sera. Dormono ancora tutti, uomini e animali della mia famiglia. Posso stare tranquilla, centellinare il mio smarrimento, elaborare il mio trauma.

Non è stata una bella sorpresa trovare Arnaldo in quello stato. Davvero non è stata una bella sorpresa.

Ero scesa a Genova per un giro di commissioni e avevo pensato di passare per un saluto. Sapevo che apriva l’ufficio molto presto. Evidentemente non ero la sola a saperlo. Chi mi aveva preceduto, però, non lo aveva fatto per lasciare un saluto, ma per ficcargli una pallottola in faccia. Una vera e propria esecuzione.

Lo avevo trovato così, seduto alla sua scrivania, come se stesse lavorando. Difficile credere a quell’immobilità innaturale: il capo leggermente reclinato, i gomiti appoggiati al piano del tavolo, il viso, devastato dallo sparo, ridotto a una poltiglia rossa. E il sangue, schizzato tutto intorno come in un film di guerra.

Il grido mi era salito da dentro, ma si era fermato nella gola, come un boccone male ingoiato e aveva rischiato di soffocarmi. Le gambe erano diventate di piombo e il cervello si era rifiutato di funzionare.

C’era voluto un po’ di tempo, non saprei dire quanto, prima che un barlume di buon senso tornasse a illuminarmi la mente e il sangue, il mio, riprendesse a irrorare i muscoli e a permettere loro di muoversi.

Cosa dovevo fare?

Stupida! Che stupida! Dovevo telefonare alla polizia, è logico.

113? No, no 114. O forse 115?

118 no, sicuramente. Quello è il numero della guardia medica. Certamente non era quello di cui aveva bisogno Arnaldo. In fondo lui non aveva più bisogno di nulla, ma c’erano delle cose che andavano fatte.

Ho chiamato il 113. Mi sembrava che fosse il numero giusto.

E infatti mi hanno detto che sarebbero arrivati subito. Che non mi dovevo muovere da lì.

E chi si muove?

Mentre aspettavo avevo in mente Anna: “E ora cosa le dico!”.

Marzo 1979

Felice

Cino si affaccia alla finestra, fa l’ultimo tiro e lancia la cicca in strada. L’arco luminoso va a spegnersi sul marciapiede. È quasi buio, la sera di un giorno come tanti. I lampioni sono già accesi sul traffico del rientro. Il bus vomita gente che torna nel quartiere dormitorio dopo una giornata di lavoro. Anche Cino è appena rientrato dal turno in fabbrica. La fatica è un pugno in mezzo alle reni, dove si aggruma nei muscoli e trae sollievo solo dallo scorrere dell’acqua calda sulla schiena. Quello che ci vuole è una bella doccia, ma il bagno è occupato. La convivenza con gli studenti, con cui divide l’appartamento, non è pacifica; a cominciare dagli orari. Vanno a letto quando lui si alza per andare al lavoro e si svegliano quando torna. Fanno baldoria quando vorrebbe riposare, lasciano la cucina in condizioni pietose.

Si sdraia sul letto, ma con la riunione che lo aspetta non può rischiare di scivolare nel sonno. Si alza e passeggia nervosamente nel corridoio.

Una biondina esce dal bagno ridacchiando. Stringe intorno al corpo un asciugamano tentando inutilmente di contenere seno e natiche che esibisce allegramente sotto il suo naso, mentre passa, prima di infilarsi nella camera di uno degli studenti.

Finalmente Cino può farsi la doccia. Quando ha appena terminato di insaponarsi, un getto di acqua gelida lo fa rabbrividire: l’acqua calda è finita. Imprecando allunga la mano verso l’asciugamano. Lo avvolge intorno ai fianchi e riattraversa il corridoio.

- Ehi! Quell’asciugamano è mio. Una bruna alta e prosperosa, comparsa all’improvviso, gli rivolge uno sguardo, tra il seccato e il divertito, indicando l’indumento.

- Se lo vuoi te lo do, ma, ti avverto, sotto sono nudo! Non ha voglia di scherzare, è incazzato e in imbarazzo, il suo tono è seccato.

La ragazza ci resta male, fa un gesto con la mano e si rifugia in cucina.

Cino la raggiunge di lì a poco. Vuole mangiare qualcosa, prima di

andare alla riunione. E vuole anche scusarsi per il gesto di poco prima.