Io sono il Libanese è il prequel di Romanzo Criminale in cui Giancarlo De Cataldo racconta gli inizi della carriera del capo carismatico della “sua” Banda della Magliana, il Libanese appunto, personaggio ispirato da Franco Giuseppucci che dalle sue pagine è colato nel film di Michele Placido col volto di Piefrancesco Favino e nella serie televisiva di Stefano Sollima col grugno incazzoso di Francesco Montanari.

Una piccola icona, il Libano. La tentazione sarebbe quella di considerarlo un santo bandito e questo libro la sua agiografia. Niente di più sbagliato. Non esistono santi in calendario “anarchici, individualisti e allergici alla disciplina”, per usare le stesse parole con cui l’autore descrive il suo personaggio. Oppure si potrebbe citare lo stesso Libanese che, meditando sulla struttura e i rituali delle mafie, dice che “non c’è bisogno di scomodare i santi per sentirsi figli di puttana”.

Allora icona non lo si può definire del tutto, il Libano. È piuttosto – e con ogni evidenza – l’archetipo del leader criminale di quegli anni: un dobermann dotato di una scatola cranica fuori dal comune, con l’unico obiettivo di accumulare soldi con ogni mezzo. Che poi non sono caratteristiche del tutto estranee a certi personaggi contemporanei, con l’unica differenza di essere meno inclini o addestrati all’uso diretto delle armi.

Quanto al libricino in sé, senza tutto il resto della baracca – romanzo, film, serie – forse non reggerebbe troppo alla gravità non-newtoniana delle librerie nostrane. Ma la baracca già c’era e, a questo punto, è inutile pensarci.