Dal compassato della tradizione allo sfrenato tendente al febbrile, ecco la rilettura, già manifesta nell’episodio precedente (semplicemente Sherlock Holme) a firma anche stavolta dell’ex signor Madonna al secolo Guy Ritchie (Sherlock Holmes: Gioco di ombre, il titolo…).s

C’è da divertirsi e c’è da riflettere. Messa in scena rutilante e contaminata al punto da fare di Holmes/Robert Downey Jr nell’ordine: un esperto di arti marziali, un veggente capace di anticipare quel tanto che basta le cattive intenzioni avversarie, facoltà utile assai nei numerosi corpo a corpo che costellano il film e che consente al Nostro di cavarsela al meglio (e questo è il divertimento…), un ricercatore alle prese con il riuscire a rendere invisibile qualcosa attraverso qualcos’altro (“rifrazione della luce”? o semplice “tappezzeria?...ahiaiaia, abbiamo già detto troppo…).

La riflessione invece è duplice: da un lato Ritchie pare aver trovato, alle prese con il personaggio di Conan Doyle, lo stato di grazia che lo fa capace di rendere al meglio una sceneggiatura un po’ verbosa ma scoppiettante quando serve e nella quale l’altra colonna del film, Robert Downey Jr, sguazza come un app su uno smartphone, mentre dall’altro va perlomeno osservato come l’uso del ralenti, diffusissimo nel film, sembra viaggiare su un versante diametralmente opposto a quello di due registi che del ralenti erano e sono maestri, vale a dire Sam Peckinpah e John Woo.

Completano la brigata Jude Law (il dottore Watson), Noomi Rapace (una gitana), e Jared Harris (Professor Moriarty), villain di turno.

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