I tre moschettieri.

Il romanzo d'appendice scritto dal francese Alexandre Dumas (padre) nel 1844 e pubblicato originariamente a puntate sul giornale Le Siècle, si è prestato a numerose trasposizioni cinematografiche (se ne contano una cinquantina, tra film per il cinema e per la tv). Accanto alle più fedeli al romanzo, autenticate dal particolare punto di vista del regista di turno, ce ne sono altre che pur mantenendo l’ossatura del feuilleton di Dumas, hanno finito col sconfinare in generi forzatamente imbastiti agli intrighi alla Corte del Re di Francia.

“Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po' di attenzione, a distinguerla dal volto.” (I tre moschettieri, Alexander Dumas)

Ma quali sono state le pellicole nel corso degli anni che hanno segnato il percorso delle guardie del Re Luigi XIII?

Dopo le versioni del 1909 e del 1916, una cui copia è ancora oggi conservata alla Library of Congress, si arriva alla pellicola datata 1921 che vede protagonista Douglas Fairbanks, l’eroe avventuroso per eccellenza del cinema muto, con il suo sorriso e la sua agilità acrobatica.

Baffetti da sparviero, probabilmente il D’Artagnan più guascone, insieme al Gene Kelly coreografico e ironico del 1948.

Questa del ’48, è una traduzione dalla carta alla celluloide che avrebbe probabilmente sottratto un sorriso all’aspetto pacioso di Dumas padre. Il puro divertimento a servizio del romanzo storico d’evasione.

Una megaproduzione hollywoodiana firmata George Sidney, dove accanto a Gene Kelly/D’Artagnan, troviamo la bionda platinata targata MGM Lana Turner nel ruolo a lei congeniale, sensuale, ma soprattutto inquietante di Milady De Winter, Angela Lansbury nel ruolo di Anna D’Austria e Vincent Price in quelli mefistofelici di Richelieu.

Il film è un riuscitissimo connubio di coloratissime avventure a cui si contrappongono momenti più drammatici e di pura comicità, specie nei duelli, dove Gene Kelly sprizza vitalità ad ogni inquadratura, accompagnato da brani da opere di Pyotr Ilyich Tchaikovsky.

Merita una menzione anche la trasposizione del’73, di Richard Lester, fresco di due film con i Beatles. Si tratta di una delle versioni più “picaresche”, in cui gli scontri non sono esibizioni di scherma, ma dei veri e propri tafferugli, con il gioco di lama integrato da surrogati di ogni genere ad uso di armi improvvisate.  Si ricordano perfettamente i maldestri duelli di Michael York nei panni di D’Artagnan, e l’Aramis clericale e compassato di Richard Chamberlain, futuro padre Ralph di Uccelli di Rovo.

Inutile dire che la bellezza e sensualità di Raquel Welch nel ruolo di Costanza non passa inosservata, così come la scaltra Milady di Faye Dunaway. L’amalgama tra gli attori è perfetta, senza che nessuno cerchi di rubare il ruolo all’altro, rispettando quasi religiosamente gli spazi che sono concessi ad ognuno di loro. Lo stesso regista sembra divertirsi un mondo tra duelli, galoppate e intrighi di corte, offrendoci riprese ardite e scanzonate, senza mai rinunciare all’humor. 

Da segnalare il passaggio di consegne targato Hammer. Il Vincent Price del’48 passa il testimone a Christopher Lee, non nelle vesti del Cardinale, ma in quelle più combattive e oscure di Rochefort. Ma Richelieu è comunque in buone mani, anzi nelle spalle possenti e nella recitazione spigolosa di Charlton Heston.

Una pellicola che avrebbe strappato qualche grassa risata a Dumas, magari.

E a grandi falcate, pardon, galoppate, arriviamo al film del ’93. Forse il più a stelle e strisce per spirito e sceneggiatura.

D’Artagnan è Chris O’Donnell, Charlie Sheen è Aramis. A Oliver Platt tocca Porthos, mentre Athos ha il volto di Kiefer Sutherland. Già la scelta degli attori, unita alla produzione Disney, lascia già presagire il genere di prodotto che si andrà a vedere. Attori simpatici, ma con poco spessore. Caricature, più che personaggi, a tutto tondo.

“Vedete? Dio esiste!” (Aramis)

Cambiano i contenuti della storia originale, per un risultato finale di un film di intrattenimento, dove spiccano i costumi e le scenografie che ricostruiscono decentemente gli ambienti francesi seicenteschi.

Il ritmo è incalzante, le frasi dello script adatte a un pubblico giovane di mangiatori di popcorn, ma senza la spina dorsale del romanzo di Dumas.

“Quei moschettieri sono una minaccia. Devono essere fermati! Mille pezzi d'oro sulla testa di ciascuno dei quattro, vivi o morti! Io preferirei morti.” (Richelieu, a Rochefort)

Un efficace Tim Curry timona da par suo l’arguzia perfida del cardinale Richelieu e in alcune espressioni ci riporta alla mente il suo Pennywise di IT, mentre Rebecca De Mornay è forse la Milady De Winter dalla carica erotica più accentuata, nonostante il timbro per famiglie Disney del “desiderare, ma non vedere né toccare”.

Tralasciamo la “Maschera di Ferro”, nel quale agiscono sempre i moschettieri, ma con riferimento al terzo romanzo sulle celeberrime guardie del Re, Il visconte di Bragelonne, forse quello con le maggiori cadenze e ambientazioni storiche delle tre opere.

Arriviamo così alla nota dolente, di un film di cui si poteva fare assolutamente a meno. Il classico, anche se rielaborato, modernizzato, lascia spazio all’inverosimile: “I tre moschettieri” targato 2011 e Paul Anderson, quello di Mortal Kombat, Alien vs Predator, Resident Evil: Afterlife, per intenderci.

Si apprende fin da subito che Anderson non ha bene a mente – se volontariamente o meno, non possiamo saperlo – il romanzo di Dumas padre.

I moschettieri sono più dei supereroi da fumetto, le atmosfere più adatte alle morie di zombi di Resident Evil.

Se l’esperimento è riuscito per altri (come lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie), qui la cosa non convince molto.

Cosa rimane del feutillon? Poco o niente.

"Non sono un vero prete!" (Aramis)

Come poco o niente rimane della recitazione annoiata, fuori parte, di tutti gli attori di sesso maschile, con un inguardabile e insopportabile Orlando Bloom/Duca di Buckingam e un giovane Luigi XIII/Freddie Fox che avrebbe fatto invidia a Elton John per il guardaroba da adattare al “suo” stile Impero. La sua unica preoccupazione? Quale è il colore che va di moda? Persino l’efficace Christoph Waltz di “Inglorious bastards” si produce in una versione annacquata, poco incisiva del Cardinale.

E Milady?

Il ruolo è affidato a Milla Jovovich. Si assiste alle scene che ci si attendono da lei. Combattimenti alla Matrix, atleticità e azione. E non delude. La scena al castello per rubare i gioielli della Regina è forse il momento migliore del film, anche perché si resta concentrati sulle grazie e sul dinamismo dell’attrice in una prova alla Entrapment e si rimuove per un attimo quanto di peggio si è visto fino a quel momento e non si riflette sul fatto che il peggio deve ancora arrivare.

Finito questo piacevole intermezzo dell’Alice di Resident Evil 1,2,3,4,5,…, una sorta di famoso “intervallo” televisivo alla rovescia, si ritorna a respirare aria cattiva. L’impalpabilità della sceneggiatura è inversamente proporzionale alla pesantezza mastodontica dei velieri volanti. La battaglia tra le due navi è quanto di più comico e inutile si sia visto negli ultimi anni.

Il finale. Un duello sui tetti che ricorda alla lontana il finale de “Il corvo”, senza il pathos, la fotografia e le riprese di quel film.

Per fortuna Dumas padre non può risorgere come uno degli zombie tanto cari alla Alice/Milady/Jovovich, altrimenti prima di uscire dalla tomba ci si rivolterebbe sicuramente dentro. E per consentire questa chiosa finale, tralasciamo il piccolo dettaglio che ormai il romanziere sia solo cenere al Pantheon di Parigi…

Ma al peggio non c’è mai fine… In stile Troy, con velieri replicati a centinaia al computer, si annuncia il sequel…