Con la ben nota carica profetica che ogni buon noir possiede nel suo DNA, questo romanzo della scrittrice norvegese Karin Fossum sembra anticipare di due anni il grande tema della “perdita d’innocenza” che proprio in questi giorni campeggia nei commenti dei principali editorialisti a proposito della strage compiuta in Norvegia da un folle assassino: nulla nel paese scandinavo – è il commento unanime – sarà più come prima e non si guarderà più con occhio puro allo sconosciuto, allo straniero, al diverso.

E la stessa cosa accade alle numerose vittime di atroci scherzi che il giovane diciassettenne Johnny Beskow – non riveliamo nulla di sconveniente, dato che la sua colpevolezza è esplicitamente dichiarata sin dalle prime pagine dalla stessa Fossum – escogita ai danni di perfetti sconosciuti: i quali hanno solo avuto la sfortuna di attirare la sua attenzione come protagonisti di innocenti articoli sulla stampa locale nei sobborghi di Oslo.

Johnny, padre mai conosciuto e la madre Trude alcolizzata, ha un fortissima carica di aggressività nei confronti del mondo che non è stato affatto tenero con lui; l’unico vero affetto è il nonno materno Henry, malandato in salute, ma capace di offrire all’adolescente la possibilità di sentirsi utile; senza contare che il vecchio lo rende partecipe della sua saggezza accumulata negli anni. Gli scherzi, a prima vista, appaiono un bravata senza particolari conseguenze, anche agli occhi della coppia di detective della polizia di Oslo, il cinquantenne – o giù di lì – ispettore Konrad Sejer e il suo collaboratore Jacob Skarre: una bimba cosparsa di sangue bovino acquistato surgelato al supermercato; un finto annuncio funebre per una settantenne ancora arzilla; una mamma convocata telefonicamente in ospedale per l’inesistente incidente stradale di sua figlia in motorino; e altro ancora.

Ma, come detto all’inizio, questi scherzi cambiano definitivamente la vita dei protagonisti: essi cominciano infatti a non fidarsi più, a coltivare pensieri negativi, a dubitare delle proprie qualità come persone, a macerarsi nei sensi di colpa o in una rabbia cieca e autodistruttiva. E, come suggerisce il titolo, a forza di gridare “al lupo”, ci scappa il morto: un bimbo di otto anni, Theo, figlio della coppia olandese Bosch, sbranato da crudeli cani groenlandesi fatti scappare da un canile ben protetto.

La Fossum, che evidentemente non considera la razionale spiegazione di tutti i fatti oscuri della vicenda come un feticcio, nel finale aperto lascia numerosi spiragli interpretativi anche se la soluzione si può agevolmente intuire; ma a lei, come sempre, interessa ciò che circonda il delitto, non l’astratto meccanismo in sé. In questo caso l’affascina evidentemente il progressivo logorarsi di vite all’apparenza serene e inattaccabili, ma pronte a disgregarsi una volta messe in discussione dalla limitata, ma non per questo meno distruttiva, “volontà di potenza” del giovane Johnny.

A fronte di questo sfondo socio-esistenziale, l’ispettore Sejer appare sempre più solo e perso nella routine giornaliera vissuta accanto a un nuovo cane, Frank; soffre di capogiri, ma ha paura di andare dal medico per ciò che potrebbe rivelargli, lui che ha già sperimentato la perdita per cancro della sua adorata moglie. Gli unici squarci di luce nella sua vita provengono invece dalla figlia Ingrid e dal nipote adottivo somalo Matteus, quest’ultimo in grado di vincere un concorso come primo ballerino in un’importante compagnia della capitale.

Il resto della squadra sbiadisce pian piano che ci si allontana dal protagonista: Skarre, solo anche lui, incontra però un notevole successo con le donne; l’ispettore capo Holthemann, ottimo amministratore ma pessimo nei rapporti umani, è la figura esattamente complementare al sensibile Sejer, capace di entrare in sintonia anche col giovane Beskow; il medico legale Snorrason, dal canto suo, compare sulla scena giusto il tempo necessario per informare i colleghi dei risultati delle sue analisi.

La Fossum dunque – e questa volta non è una facile e abusata formula editoriale per definire il protagonista di una serie poliziesca – ha creato davvero un “Maigret” scandinavo, pur con le dovute e necessarie correzioni di rotta rispetto al maestro franco-belga: non sarà infatti certamente l’intreccio a spingerci a leggere fino all’ultima pagina, ma quel sottile profumo di dissoluzione che sembra sprigionarsi soavemente da una società troppo ricca e benestante per essere anche sana e felice.

Buona prova dunque, all’altezza delle precedenti e che si inserisce, a buon diritto, nella ristretta élite del noir scandinavo che solo da pochi anni abbiamo la fortuna di apprezzare anche in Italia.

 Voto 7.5