Continua l’offensiva della Newton Compton che cerca di lanciare i suoi thriller in edizione cartonata a un prezzo popolare – 12.90 euro – che ormai non si trova più neppure in certe prestigiose collane di tascabili.

Stavolta tocca alla ultracinquantenne norvegese Unni Lindell, autrice di numerosissime opere – puntigliosamente elencate sia sul suo sito personale che nelle versioni di Wikipedia – ma che a noi interessa per La trappola di miele, romanzo noir che, secondo il malcostume italiano da tempo consolidatosi, è solamente il sesto – su un totale di otto nell’arco di quindici anni – di una serie iniziata nel lontano 1996.

Lo sfondo della storia è quello, ormai divenuto familiare anche al pubblico italiano in questi ultimi anni, di una Scandinavia – in questo caso la Norvegia di Oslo e dintorni – assai lontana dagli stereotipi di olimpica serenità nordica, di lindore morale, di civiltà nei rapporti sociali. Qui, al contrario, non c’è un personaggio che non nasconda qualche piccola o grande crepa nella sua esperienza di vita, breve o lunga che sia.

C’è la schizofrenica Vera Mattson, che odia i vicini di casa e in special modo i piccoli che turbano il suo scontroso isolamento; c’è il vecchio Helmer Ruud, che peraltro non compare mai essendo ricoverato in ospedale, che trascorre parte del suo tempo libero dilettandosi con giornali pedopornografici; c’è la famiglia Nyman con la madre che tiene una pensione per gatti, il figlio maggiore Henning, solitario e senza affetti femminili, e suo fratello Wiggo, gelataio, accusato di aver rapito e ucciso il piccolo Patrick Øye e investito la sua fidanzata lettone Elna Druzika; ci sono poi immigrati di diversa estrazione – i fratelli musulmani Kahn, affermati ma con segreti da proteggere, e giovani lettoni in cerca di precaria fortuna – che interagiscono faticosamente con il contesto sociale norvegese; persino i bambini sembrano respirare quest’aria malata se è vero che le due giovanissime amiche Louise e Ina giocano col fuoco, accettando appuntamenti da adulti sconosciuti in grado di far loro molto male.

A cercare di gettare un po’ di luce – si fa per dire – in questa calda estate norvegese del 2007 provvede la squadra della Omicidi di Oslo guidata dall’ispettore capo Cato Isaksen. Come in ogni distretto di polizia di una fiction – letteraria o televisiva – che si rispetti c’è un attento bilanciamento di caratteri e attitudini.

Isaksen ha una vita matrimoniale con Bente che ha subito, per alcuni tradimenti, alcune forti scosse; il figlio minore Georg è stato protagonista – evidentemente in uno dei romanzi non ancora tradotti – di un rapimento fortunatamente andato a buon fine, ma che ha costretto il padre a un lungo periodo di riposo. La squadra ha perso da poco – anche qui in una puntata della serie a noi sconosciuta – un suo membro, Preben Ulriksen affogato in Thailandia, che è stato sostituito, su ordine della responsabile dell’intera sezione Ingeborg Myklebust, da un’agente capace, ma dal carattere difficile come Marian Dahle.

Quest’ultima, di origine coreana, adottata in Norvegia da una famiglia che l’ha fatta soffrire, ha modi molto diretti e bruschi, al limite della maleducazione, e ha come unico compagno il cane Birka; anche qui, tradizionalmente, il suo impatto con Isaksen risulta all’inizio abrasivo, ma nel corso del romanzo i due riusciranno a capire i pregi reciproci e a far tacere le proprie individualità debordanti.

Meno caratterizzati gli altri membri della squadra: da Roger Høibakk, che all’inizio è il solo ad appoggiare il capo contro la nuova arrivata, all’esperta della repertazione, Ellen Grue, che si scopre incinta e deve decidere se tenere o no il figlio; da Asle Tengs all’altra donna, Randi Johansen all’ultimo arrivato Tony Hansen, orgoglioso di collaborare con colleghi così affermati.

L’indagine si svolge dunque secondo le regole chiare e un po’ grigie del procedural di rito scandinavo da noi conosciuto attraverso i romanzi dello svedese Mankell: una società ferita dalle molte piaghe nascoste e da un’immigrazione non completamente metabolizzata; esistenze grigie che declinano inarrestabilmente e giovani energie attratte dal proibito; indagini di routine con molte riunioni e diversi interrogatori; un finale non particolarmente brillante ma che propone la poco ortodossa verità che, in fondo, nessuno è innocente.

Certo, abituati non soltanto all’acutezza sociologica del già citato Mankell o alla travolgente vena appendicistica di Stieg Larsson, ma anche al fascino di detective norvegesi come il Konrad Seyer della Fossum o l’Harry Hole di Nesbø, questo romanzo della Lindell non appare davvero travolgente: scontato il contrasto tra le due primedonne – Isaksen e la Dahl – destinato canonicamente a ricomporsi; banali le vite private dei detective; già battuti, anche nel Grande Nord e con ben maggiore forza, i sentieri della violenza sui più piccoli e i più deboli.

Ma, non foss’altro che per la nostra ben nota mansuetudine che esercitiamo di solito sugli esordienti – almeno in casa nostra – tendiamo ad assolvere questa prova della Lindell: con la non troppo segreta speranza che il prossimo romanzo ci riservi qualche brivido in più.

Voto: 6