Quando un intellettuale come Pasolini è vivo, è facile avere paura: si può avere paura per ciò che la sua voce denuncia; si può avere paura per quello che la sua penna fa vedere; si può avere paura per quello che il suo cinema mostra.
Si tratta, in tutti e tre i casi, di una paura vera, ma sana, che stimola al pensiero e si oppone alla perdita di senso (così come all'abuso di senso comune).
Quando un intellettuale come Pasolini è vivo, tutta una costellazione di parole e significati sta lì a ricordarci certe dinamiche e certe derive, mantiene attiva la sistole e la disatole del sentire e del comprendere.
Quando un intellettuale come Pasolini è vivo, la consapevolezza e la cultura (l'elaborazione della cultura) diventano delle lenti che fanno vedere quanto intorno a noi meriti di essere analizzato con un approccio critico e problematico, oltre che autonomo: e questo, appunto, porta ad aver paura di quello che c'è, dell'appiattimento generalizzato e dei pericoli che ruotano attorno ad esso.
Ma c'è anche il contrario. Perchè quando un intellettuale come Pasolini muore, muore pure la complessità di un prisma intellettuale, muore la forza di indagine con cui filtrare il circostante.
Quando un intellettuale come Pasolini muore, muore anche la paura che che la sua esperienza ci ha insegnato ad avere.
Ed è una paura molto pià cupa e fonda dell'altra. E' una paura che sa di solitudine, di abbandono forzato, di lavoro interrotto. E' la paura della cultura che scopre di avere con sè qualcuno di meno e qualcosa di meno.
Ecco, forse il punto è questo: quando un intellettuale come Pasolini muore, il meno cresce, e tutto smagrisce nella desolata constatazione che la trincea si sta svuotando.
Certo, restano le opere: ma sempre col sospetto che una voce - quella voce - le abbia rese orfane troppo presto. |