Benvenuto, Diego. Io ti chiedo innanzitutto di parlarci della tua attività consolidata di scrittore. Hai scritto saggi, poesie, sette romanzi e conosci abbastanza bene l’ambiente editoriale. Com’è la figura dello scrittore, oggi?

Credo che la figura dello scrittore sia cambiata nel corso degli anni e che a produrre questo cambiamento sia stato principalmente il passaggio da un’editoria artigianale, in cui l’editore affrontava in prima persona i rischi impliciti nelle sue scelte editoriali, a un’editoria industriale, delegata a manager che per mantenere la propria posizione hanno come riferimento solo i numeri di vendita dei libri, indipendentemente dalla loro qualità. Pertanto, fino a un certo momento, agli anni ottanta, la figura dello scrittore, e parliamo di Moravia, Soldati, Parise, Cassola, Bassani, Gadda, Berto, i primi che mi vengono in mente, svolgeva un ruolo sociale importante che oggi si è pressoché perduto.

Hai avuto una nascita tragica e romantica, nel senso letterario del termine. Sei nato nel campo profughi di Servigliano e la storia, quella grande, quella del dopoguerra e dei nazionalismi. Quanto la contingenza storica ti ha formato come uomo e come scrittore?

L’essere nato e poi vissuto in un campo profughi, pertanto in una zona segnata da un limite preciso, che a Servigliano era addirittura un muro, e il fatto che chi stava all’interno di quel limite apparteneva a una comunità separata, diversa da tutti coloro che vivevano fuori, mi ha dato il senso della frontiera. La quale, pertanto, non era solo quella più grande, geopolitica, il cui spostamento aveva determinato il nostro esodo e la nostra storia, ma qualcosa che si porta dentro per sempre. Il forte senso di sradicamento è compensato da un altrettanto forte senso della propria identità. Pur vivendo a Roma da ormai tantissimi anni io mi sento sempre istriano, fiumano. E ciò vale per tutti noi profughi. Il poeta e amico Valentino Zeichen, fiumano come me, darebbe la stessa risposta. Noi non possiamo prescindere, o possiamo farlo solo in parte, rispetto a questa condizione.

Qual è la grande acquisizione del nuovo millennio, rispetto al Novecento, dal punto di vista umano/culturale?

Credo internet, la rete, senza dubbio. Ne riconosco gli indubbi vantaggi, ma anche i pericoli: l’isolamento dell’individuo che finisce a rapportarsi con l’altro solo virtualmente, e la perdita del gusto di certi beni che per essere goduti hanno bisogno di tutti i sensi, dal piacere del sesso per come si realizza in rete a quello di leggere un libro vero e proprio, ma anche un giornale, da tenere in mano.

Ne “Il figlio perduto” racconti una storia struggente di dissociazioni (un ragazzo che si dissocia dalla sua vita, un uomo dissociato dalla propria paternità, un paese dissociato dalla comunicazione genuina.) Tu hai lavorato anche come lettore per alcune case editrici: come inquadreresti il romanzo?

In nessun genere particolare, se non quello del romanzo. Personalmente, devo dire che quando mi accingo a scrivere un romanzo penso solo alla storia che ho in mente, non parto mai con l’idea di applicarmi a un genere preciso. Alla fine, come nel caso de “L’uomo di Kos”, “Operazione Venere” o “Crociera di sangue” può risultare che io abbia scritto un giallo o una spy-story. Adesso ad esempio sto riscrivendo un vecchio mio racconto lungo inedito, dal titolo “Ustascia” che si rifà a personaggi jugoslavi degli anni precedenti alla guerra degli anni Novanta. Lì, mi sono accorto, ci sono in nuce, quasi con spirito preveggente, tutti i temi che poi hanno portato al deflagrare dei nazionalismi in quella zona dei Balcani, ma è anche un noir estremamente inquietante. Ma io ero partito con l’idea di scrivere la storia di un nazionalista croato nella Jugoslavia comunista.

Tra i personaggi c’è anche una vedova vedova «a cui nessuno perdona di essere infelice, e poi felice». Cos’è la felicità e cos’è l’infelicità? Ci dai una definizione?

Mi trovo in un periodo in cui mio padre, ottantaquattrenne, sta molto male e, soprattutto, in cui mia moglie ha scoperto di avere un tumore per il quale attende giorno dopo giorno con sempre maggiore ansia l’intervento chirurgico. Prima di questo periodo abbiamo avuto una vita normale, allietata dalla nascita prima dei nostri tre figli e poi dei nostri nipoti. Quel prima, così normale, era la felicità.

Progetti?

É in uscita per le edizioni Hacca, nella collana diretta da Andrea Di Consoli il mio ultimo romanzo “Il fratello greco”, ambientato nell’isola di Kos, in Grecia.

Una storia di oggi ma con forti e necessari riferimenti alla seconda guerra mondiale a causa della quale l’isola ha conosciuto la tragedia dell’occupazione tedesca e la strage di 103 ufficiali dell’esercito italiano, appartenenti al Decimo Regina Fanteria. Una pagina poco conosciuta della storia italiana. Ma è anche un romanzo d’amore, e ancora una volta, come già ne “Il figlio perduto” di paternità mancate. Inoltre, per Mursia, uscirà in occasione del Giorno del Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e delle foibe del prossimo anno un memoire sulla mia storia di profugo e di quella dei miei genitori, emblematica della condizione di tutti i profughi.

Ti chiedo di salutarci con una citazione da “Il figlio perduto”

Volentieri. É la frase che il personaggio di Sime rivolge alla donna che ama: “La vita altro non è che un giorno dopo l’altro, e come riempiamo questi giorni, ciò che facciamo di essi, così riempiamo la nostra vita”